Esperti di commercio internazionale: una nuova professione tra economia, scienze politiche, lobbing e pubbliche relazioni
Si chiamano «campaigner» e in Italia si contano sulle dita di una mano: piegano il vecchio mestiere del lobbista a una buona causa. Nei palazzi del potere provano a proporre politiche diverse che mettano i diritti delle persone e dell’ambiente, prima degli interessi. Se non vengono ascoltati organizzano picchetti, flash mob, azioni simboliche per convincere chi governa con la pressione dell’opinione pubblica.

Monica Di Sisto (nella foto), 47 anni, giornalista romana e presidente di Fairwatch, associazione che si occupa di commercio internazionale, è la più attiva in Italia a occuparsi di una delle pagine più complesse della globalizzazione: i negoziati per la liberalizzazione degli scambi commerciali.

Una specie di eroina, se si pensa che il nostro Paese può vantarne in tutto solo quattro, sì, solo quattro professionisti con l’expertise per essere considerati stakeholder, influencer, nei rapporti con le istituzioni internazionali e non solo.

Una donna non a caso. Queste nuove figure professionali sono infatti prevalentemente donne. Come Lori Wallack dell’organizzazione di consumatori Usa Public Citizen, o la francese Susan George. Donne a loro agio in tailleur nei palazzi del potere e davanti ai cordoni della polizia che da oltre vent’anni spiegano, numeri alla mano, dove va la globalizzazione e come potrebbe andare meglio, cui molte istituzioni internazionali come l’ILO o la FAO da qualche anno cominciano a dar loro ascolto e ragione, fino a farsene guidare.

«Ho capito quanto fosse importante studiare le liberalizzazioni a Seattle, nel 1999», spiega la Top campaigner italiana, Monica Di Sisto, «l’Organizzazione Mondiale del commercio (Wto) aveva fatto saltare delle tasse sull’import di automobili nel mondo, e la città, capitale Usa dell’auto dopo Detroit, si era trasformata in un deserto. Le fabbriche erano state spostate nel sud est asiatico, dove il lavoro non costava niente e c’era libertà di inquinare. Le auto rientravano sul mercato americano e, senza pagare tasse alle dogane, costavano meno mentre i profitti per i costruttori crescevano. Migliaia di americani benestanti si ritrovarono sul lastrico, senza assistenza sanitaria, con i figli fuori dai college. Quando i ministri del commercio si riunirono a Seattle per l’assemblea della Wto, con sindacalisti, ambientalisti, attivisti provenienti da tutto il mondo, gli ex lavoratori con mogli e figli si convocarono sulle BBS, le prime chat di internet e via email, fecero fallire il vertice e misero la città a ferro e fuoco. Li chiamarono “no global”, ma dopo qualche anno tutti si accorsero che la globalizzazione andava governata meglio, se si voleva uscire dalla crisi economica, sociale e ambientale nella quale ci eravamo infilati». Da allora Monica Di Sisto ha cominciato a studiare i negoziati commerciali, come erano fatti e i loro impatti sulle persone e l’ambiente, diventando oggi il nostro fiore all’occhiello, una degli stakeholders più accreditati del globo in materia.

Ma come si acquistano competenze del genere? Per capire i negoziati commerciali basta il corso di laurea in Economia internazionale, dove la disciplina di Commercio internazionale è in curriculum. Spesso, però, molti di questi negoziati sono svolti sulla base di testi riservati e, visto che contengono forti interessi nazionali, li leggono gli esperti dei Governi che li portano avanti, oltre qualche lobbista delle industrie più potenti. I campaigner li ottengono di straforo, grazie a funzionari o politici che capiscono l’importanza di farli valutare da persone che non hanno interessi personali in gioco. Li sottraggono e li passano, a proprio rischio.

Ecco che quindi, oltre al curriculum formale, per questo ruolo conta moltissimo costruirsi una rete di relazioni: «Io sono inserita in una comunità online di un’ottantina di esperti che nelle Università», spiega Monica Di Sisto, «così come in associazioni internazionali tipo Greenpeace, Public Citizen o i sindacati, dagli Usa, all’India, l’Africa e in Europa, in particolare a Bruxelles. Lì ci si scambiano contatti, analisi, report, valutazioni politiche e anche azioni sui negoziati in corso. Con i social, poi, è tutto più facile: prendi di mira un ministro, o il Parlamento europeo su Twitter o Facebook, spieghi le tue ragioni e chiedi un cambiamento. Se l’azione riesce, puoi avere migliaia di post, di re-tweet da parte di persone comuni che non avrebbero mai pensato di protestare sotto a un ministero».

Senza contare che a Bruxelles e a Ginevra ci sono per l’Europa la più grande concentrazione di opportunità di lavoro per i campaigner sul commercio in ambito non profit, perché molte associazioni e organizzazioni sindacali e di consumatori muovono i loro campaigner presso le sedi del parlamento e della Commissione Ue e quella della Wto che è basata a Ginevra (in Italia le sedi principali sono Roma e Milano).

È fondamentale quindi saper analizzare «in proprio» le ricadute di trattati che, avendo portata globale, hanno effetti imponenti ma sottovalutati: «Nel 2005, ad esempio, la Wto liberalizzò il mercato mondiale dei prodotti tessili e in Italia nel giro di due anni si persero oltre 700mila posti di lavoro e chiusero migliaia di imprese mentre il Parlamento non aveva mai discusso del trattato e il Governo aveva ascoltato solo le voci a favore dei grandi marchi che producevano già poco in Italia. Avevamo previsto tutto, sottoposto a Parlamento e Governo i nostri report senza successo. Tanti degli imprenditori e dei sindacalisti che avevo incontrato allora per batterci insieme, oggi appoggiano le azioni della mia associazione, anche se quella fabbrica e quel lavoro non ce l’hanno più».

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