Ha attraversato sette decenni di storia italiana. Ha testimoniato la rivoluzione sessuale (il primo ombelico mostrato in tv), ha picconato regimi (Fiesta con le immagini del funerale di Franco ci lascia ammutoliti), è stata l’ambasciatrice del pop italiano nel mondo: appena uscita su Disney+, per la regia del bravissimo Daniele Luchetti, il docufilm in tre episodi cerca di racontare vita e carriera della più grande showgirl europea. La narrazione oscilla tra la descrizione emotiva ed empatica di Raffaella Pelloni (il nome anagrafico di Carrà) e quella, altrettanto affettuosa dell’iconica Raffaella.

Lella, il primo episodio, si focalizza sulla giovinezza di Carrà: dai fallimenti come ballerina e attrice al successo trionfante di Canzonissima del 1970. Rafaela, invece, si concentra sul successo internazionale, nelle due Americhe e nella Spagna postfranchista. Il terzo episodio, Carrà, ripercorre gli anni 90, fino alla sua morte, quel 5 luglio 2021, da cui decise di escludere drasticamente tutti, anche amici e parenti più stretti.

La voce narrante è affidata a parenti, amici, collaboratori, ammiratori, personaggi che hanno avuto a che fare più o meno da vicino con Raffella: dal regista Emanuele Crialese a Barbara Boncompagni (figlia del compagno della Carrà per tanti anni) e Salvo Guercio (entrambi anche autori), da Tiziano Ferro a Marco Bellocchio (che studiava con lei) a Fiorello, fino al primo fidanzato, l’ex calciatore Gino Stacchini, o all’anziana amica di famiglia Anna Vasini, e alla giornalista Caterina Rita, vera deuteragonista del film, con il suo eloquio straordinario.

La regia innesta qualche elemento di fiction ma in maniera riconoscibile e delicata, mai manipolatoria, e monta immagini di repertorio (non banali), testimonianze inedite, documenti storici. Luchetti è davvero coinvolto e questo lo salva dalla trappola agiografica o voyeuristica. Anzi: ne viene fuori un racconto commovente fino alle lacrime, proprio per la delicatezza con cui vengono sfiorate le contraddizioni, le solitudini, le ossessioni, dunque l’autenticità, di una diva che è diventata icona amatissima e incontrastata di più generazioni.

In tre sole ore, Luchetti riesce a a farci intuire gli elementi di questa antieroina romantica, donna economicamente più che affermata, senza un marito, senza figli, ambiziosa eppure dolce, iperdisciplinata eppure freak, bisognosa di conferme e affetti eppure libera. Un’Azdora romagnola, cuore di un matriarcato operoso, simbolo della comunità LGBTQIA+ e regina di quel femminismo inconsapevole che ha di fatto ispirato molte donne. Ma anche bambina abbandonata dal padre e cresciuta da una madre severissima e poco convinta del talento della figlia, donna che non ama essere baciata e che si definisce “la bambola con cui tutti abbiamo giocato”.

Di sicuro il docufilm è troppo breve e mancano alcuni momenti topici, come per esempio il Festival di Sanremo 2001, il legame con Eurovision, il ritorno trionfale a The Voice. Manca, soprattutto, il racconto della morte. E il punto di vista di Sergio Japino, suo storico compagno dopo Boncompagni.

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