Se è vero che la Storia si nutre di corsi e ricorsi e le sue segrete trame sincroniche non sono un’opinione, non sorprende che lo spettacolo Dive, su testo di Roberta Calandra e regia di Mariano Lamberti, debutti a Roma, Teatro Marconi, il 15 Aprile, anniversario della morte di Greta Garbo.

Almeno tre i livelli temporali di questo progetto complicato e affascinante, che si intrecciano in una sorta di sinfonia polifonica, non casualmente, che la parte musicale non ha ruolo secondario nel contesto.

Ci sono gli intrecci amorosi della Hollywood bisessuale degli anni ’30, le rivalità, le alleanze continuamente mutevoli, i segreti, i pettegolezzi, l’assedio della stampa, le vite complesse e indefinibili delle mitologiche protagoniste come Greta Garbo, interpretata da Tiziana Sensi, Marlene Dietrich, sulla scena Marit Nissen, ma anche della meno conosciuta Mercedes De Acosta, alias Caterina Gramaglia, poetessa e sceneggiatrice spagnola che le ebbe entrambe come amanti, tra non poche altre, in relazioni crudeli e iper romantiche; creatura di spiritualismo esteso, che mesmerizzava Greta con il suo sapere sul buddismo, sulla reincarnazione, sul potere del cuore prima di ogni altro.

Non è certo il senso della misura che spinge queste dive a inondarsi di fiori, regali pregiati, scommesse assolute che le vedono ideare proposte di androgine rappresentazioni per il grande schermo, accoltellarsi alle spalle, negarsi a loro stesse e al mondo. Non è un caso che la prima versione del testo s’intitolasse “Mai ricevute lettere d’amore” – frase che Garbo ebbe a dire di se stessa, quando in realtà le aveva distrutte volontariamente.

Poi c’è Cecil Beaton, fotografo la cui omosessualità non impedì una relazione con Greta, spesso perno di confidenze scomode con Mercedes, magnetico artefice di immagini indimenticabili.

Icone che il tempo ha reso senza tempo, grazie alla loro tenace ricerca di una creazione costante, che rompesse stereotipi, intimi ma anche professionalmente innovativi, sempre forzando le rigide schematizzazioni dominanti.

Come per poche altre comunità nella storia della cultura, incarnano la danza di vita e arte in un interscambio senza respiro. A Beaton Lamberti affida il volto unico di Mariano Gallo, in arte Priscilla, che fa da ponte a una visione calata con prepotente inventiva negli anni ’80, seguendo l’ispirazione già suggerita dalla hit di Madonna, Vogue. Gli anni dell’Aids, di un’affermazione comunque sofferente della propria diversità, di un disagio velato e magnificato insieme da paillettes e piume.

Gli anni Hollywoodiani vessati dai dettami del codice Hayes, che creava difficoltà anche a un bacio eterosessuale sulla scena, gli anni ’80 affogati da difficoltà esistenziali più attinenti alla malattia e alla miseria, ma anche a un’incontrollabile urgenza di vita, di espressione altra, che, invece di nascondersi, pretendeva di venire esibita, al fine di riconoscersi dirompendo.

Su tutto questo lo sguardo, l’alone ancora opaco, meno leggibile, del nostro presente, dibattuto tra enormi conquiste libertarie e pari limitazioni, norme inedite, tecnocratiche, economiche, sanitarie, mediatiche, esistenziali, informazioni e contro informazioni a bombardamento che ci fanno forse leggere con maggiore fascinazione i decenni precedenti, attingendone con timida voluttà alle pieghe riposte, a slanci dimenticati.

Chi non scambierebbe d’altronde una cascata di petali di rose sul vialetto di casa contro un like?

La frequenza della censura, come quella dell’amore, dichiarato, insistito, negato, preteso, romantico, venato di sadomasochismo, si alternano in un costante gioco di ruolo, maschere, ambivalenza, in una vorticosa costruzione e ricostruzione di immagine, personale e collettiva, imponendo agli intensi protagonisti un tourbillon interpretativo che alterna registri e sfaccettature, come a ripassare in volo l’ambiziosa carrellata degli anni prescelti. Spietati e magici, dove la ricerca del piacere e quella della propria individualità si intersecano inestricabilmente, regalandoci una malcelata nostalgia.

Da segnalare le luci di Antonio Grambone, i costumi di Valeria Ricca, le coreografie di Emiliano Perazzini, le musiche di Andrea Albanese, le grafiche di Andrea Germo Leo, il lavoro stampa di Elisa Fantinel, Serena Raimondi aiuto regia, l’ospitalità del Teatro Marconi che aggiorna anch’esso costantemente la sua immagine, per aderire a un teatro sempre più complesso da gestire, fenice ostinata e, nonostante tutto, ancora latrice di insostituibile passione.

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