In Italia, con cultura della cancellazione si intende quando Salvini o Meloni dicono che con il DDL Zan non si potrebbe più dire frocio. Ovviamente si tratta di un uso politico e strumentale del concetto, che invece è qualcosa di molto più complesso.

La cancel culture (nata nel 2017 con i Black Twitter)  è una forma contemporanea di boicottaggio e ostracismo contro qualcuno che ha fatto o detto qualcosa considerato discutibile o offensivo, e che viene effettuata da bolle sociali (o echo chamber) in cui vige l’economia dell’attenzione (tipica dei social network), per cui se privi qualcuno della sua visibilità, lo stai privando di un sostentamento. L’azione pubblica di stigmatizzazione ha come conseguenza l’isolamento e l’estromissione da cerchie sociali e professionali, sia on line che off line, e mira alle pubbliche scuse per quanto commesso.

L’intera questione riguarda il complesso rapporto tra il politicamente corretto e la libertà di espressione. Se, da una parte, il politicamente corretto permette lo spazio per costruire nuovi immaginari e nuove forme di rappresentazione per minoranze storicamente oppresse che rivendicano giustizia sociale, d’altra parte qualunque azione assimilabile alla censura lede il principio di tolleranza, base di ogni democrazia, e anche il diritto all’informazione.

Vi ricordate, vero, la morte di George Floyd? Era il 25 maggio 2020. La rabbia che ne conseguì portò, tra l’altro, anche ad atti di iconoclastia verso statue o monumenti, con l’obiettivo di cancellare i simboli di un passato razzista e schiavista. La destra mondiale insorse contro gli attivisti e le attiviste che compivano atti “vandalici” in nome della giustizia sociale.

In realtà non fu solo la destra a reagire, ma anche un gruppo nutrito di intellettuali, tra cui Noam Chomsky, Margaret Atwood, Francis Fukuyama, e tantissimi altrə, che pubblicarono su Harper’s Magazine una lettere aperta di cui vorrei condividere la traduzione di Meltea Keller, perchè capace di problematizzare in modo laico una questione urgente di questa nostra contemporaneità che rischia, proprio in nome della giustizia sociale, di paralizzarsi in una nuova serie di standard morali che tendono a indebolire il dibattito aperto in favore del conformismo ideologico.

Le nostre istituzioni culturali stanno affrontando un momento di prova. Le potenti proteste per la giustizia razziale e sociale stanno portando a richieste tardive di riforma della polizia, insieme a richieste più ampie per una maggiore uguaglianza e inclusione nella nostra società, non da ultimo nell’istruzione superiore, nel giornalismo, nella filantropia e nelle arti. Ma questa necessaria resa dei conti ha anche intensificato una nuova serie di atteggiamenti morali e impegni politici che tendono a indebolire le nostre norme di dibattito aperto e tolleranza delle differenze a favore del conformismo ideologico.

Applaudendo il primo sviluppo, alziamo la nostra voce anche contro il secondo. Le forze dell’illiberalismo si stanno rafforzando in tutto il mondo e hanno un potente alleato in Donald Trump, che rappresenta una vera minaccia per la democrazia. Ma non si deve permettere che la resistenza si rafforzi nella sua stessa forma di dogma o coercizione, che i demagoghi di destra stanno già sfruttando.

L’inclusione democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se ci esprimiamo contro il clima di intolleranza che si è instaurato da tutte le parti. Il libero scambio di informazioni e idee, linfa vitale di una società liberale, diventa ogni giorno più ristretto. Mentre siamo arrivati ​​ad aspettarci questo dalla destra radicale, la censura si sta diffondendo anche più ampiamente nella nostra cultura: l’intolleranza per i punti di vista opposti, la moda della gogna pubblica, l’ostracismo e la tendenza a dissolvere questioni politiche complesse in una certezza morale accecante.

Sosteniamo il valore di un discorso controcorrente robusto e persino caustico da tutte le parti. Ma ora è fin troppo comune sentire chiamate a punizioni rapide e severe in risposta alle trasgressioni percepite della parola e del pensiero. Ancora peggio, i leader istituzionali, in preda al panico e cercando di controllare la situazione, stanno impartendo punizioni frettolose e sproporzionate invece di riforme ponderate.

Gli editori vengono licenziati per aver eseguito pezzi controversi; i libri vengono ritirati per presunta inautenticità; ai giornalisti è vietato scrivere su determinati argomenti; i professori vengono indagati per la citazione di opere letterarie in classe; un ricercatore può essere licenziato per aver diffuso uno studio accademico sottoposto a revisione paritaria; e i capi delle organizzazioni vengono estromessi per quelli che a volte sono solo goffi errori.

Qualunque siano gli argomenti su ogni particolare incidente, il risultato è stato quello di restringere costantemente i confini di ciò che può essere detto senza la minaccia di rappresaglie. Stiamo già pagando il prezzo di una maggiore avversione al rischio tra scrittori, artisti e giornalisti che temono per il loro sostentamento se si discostano dal consenso, o addirittura non hanno sufficiente zelo nel confermare un certo pensiero. Questa atmosfera soffocante alla fine danneggerà le cause più vitali del nostro tempo. La restrizione del dibattito, sia da parte di un governo repressivo che di una società intollerante, invariabilmente danneggia coloro che non hanno potere e rende tutti meno capaci di partecipazione democratica.

Il modo per sconfiggere le cattive idee è attraverso l’esposizione, l’argomentazione e la persuasione, non cercando di zittirle o augurarsi che scompaiano. Rifiutiamo ogni falsa scelta tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra. Come scrittori abbiamo bisogno di una cultura che ci lasci spazio per la sperimentazione, l’assunzione di rischi e persino gli errori. Dobbiamo preservare la possibilità di un disaccordo in buona fede senza conseguenze professionali disastrose. Se non difendiamo proprio ciò da cui dipende il nostro lavoro, non dovremmo aspettarci che il pubblico o lo Stato lo difendano per noi“.

Il pensiero di Nick Cave
sulla cancel culture

Tra le critiche a questa lettera, soprattutto da sinistra, vorrei condividere questa, perchè molto interessante e puntuale. A mio avviso, siamo di fronte a il dibattito della contemporaneità, che si contestualizza soprattutto nella bolla dei social media. Proprio in questo senso intervenne anche Nick Cave, dicendo a Spectator che l’atteggiamento di colpevolizzazione e privazione di sostegno e gradimento, spesso espresso tramite i social, nei riguardi di personaggi pubblici, aziende o prodotti culturali ritenuti portatori di un messaggio offensivo o politicamente scorretto è insostenibilmente asfissiante. Cave ha criticato la cancel culture come opposto della pietà e degenerazione del politicamente corretto, divenuto “la più infelice religione del mondo”.

Considero di grande utilità l’articolo di Gwen Bouvier, pubblicato di recente dalla rivista Discourse, Context & Media, sul ruolo controverso dei social media nelle campagne di giustizia sociale. Attraverso un case history sul razzismo, l’autore mostra come le piattaforme abbiano molti vantaggi quando ci si scaglia contro una discussione ma, favorendo commenti veloci, semplificati e contraddittori, rischia di astrarre il tema (il razzismo) decontestualizzandolo dalla discussione originaria: “Mentre coloro che twittano si divertono e si godono la loro posizione morale condivisa, l’effettivo razzismo strutturale endemico nella società rimane invisibile e si travisa la questione chiave sollevata“.

Un anno fa, il Wall Street Journal criticò il #DisruptTexts, riportando alcuni libri che tale movimento “bannava” in quanto veicoli di pregiudizi, tra cui l’Odissea o La Lettera scarlatta. Il collettivo respinse qualunque accusa dichiarandosi
contrario ad ogni tipo di censura (invito infatti a leggere la mission). In realtà, moltissimi collettivi di attivistə (come noi ReWriters) lavorano per ridiscutere i canoni tradizionali di rappresentazione e costruire nuove pratiche anti-bias. La domanda è: come posizionarsi di fronte a un passato traboccante di stereotipi kyriarchy o a un oggi che discrimina senza fare presentismo nè censura?

Daisaku Ikeda e l’importanza del dialogo

Dal presentismo ci si difende ricordando di non applicare categorie interpretative attuali a fenomeni del passato, pena un’errata ricostruzione storica. Dalla censura, invece, con lo strumento del dialogo. Un libro che può aiutarci a comprenderne la forza è Daisaku Ikeda Maestro di dialogo: “Gandhi era perentorio: Devi dialogare! A parole tutti sono disponibili al dialogo, ma nei conflitti dialogare non è affatto facile. E’ un’arte alla quale educarsi ed esercitarsi. Nella sua incessante e intensissima attività, Daisaku Ikeda ha offerto una molteplicità di esempi di dialogo. Al centro del suo pensiero c’è l’idea che la trasformazione profonda della persona sia la chiave per la pace, per il benessere di tutti gli esseri viventi e per un armonioso rapporto con la natura. Senza questa rivoluzione umana le riforme sociali e strutturali non riuscirebbero da sole a produrre effetti duraturi. Le sue azioni nascono dalla fiducia nella capacità delle persone di costruire legami di amicizia attraverso culture e tradizioni“.

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