I Måneskin portano l’Italia al primo posto in Europa e la lanciano in un nuovo futuro dove tutto è possibile, anche passare in 4 anni dai marciapiedi ai palchi più importanti e seguiti del mondo. Il messaggio, sul piano simbolico, è rivoluzionario: si può inventare un nuovo linguaggio, una nuova grammatica, un nuovo immaginario senza pagare pegno alla norma e ai canoni dei “vecchi”, di noi vecchi, quei genitori che invece di fare da trampolino per i loro figli li hanno inibiti e frustrati attraverso il più perverso degli impliciti: non riuscirai mai a superare il maestro.

E invece non è così: dopo decenni, anche grazie al nuovo modo di consumare musica, è finalmente possibile affermare la propria visione artistica e del mondo anche senza trascinarsi sulle spalle la zavorra della tradizione, la lingua dei padri nella quale non ci si riconosce più, quella norma, non solo artistica ma anche morale e ideologica, che racconta un mondo che non è più convincente, se non altro perchè si sta autodistruggendo, divorato da vecchi modelli predatori, adesso diventati totalmente disfunzionali per vivere nell’oggi e aspirare al domani.

E’ questa la rivoluzione valoriale dei ragazzi e delle ragazze della Generazione Z, sorta di attivisti vocazionali laici, che si esprimono in musica ma non solo (Greta Thumberg e i Fridays For Future, per esempio, ma anche Aurora Ramazzotti sul #CatCalling, o Fedez sull’omolesbobitransfobia). A spazzare via le dighe e le dogane della vecchia generazione, è stato un caso: lo streaming. Là, in quel mondo dove ci si gioca tutto nei primi venti secondi di ascolto, dove se non convinci si passa oltre, si “skippa”, i giovanissimi hanno potuto esprimersi in libertà e confrontarsi direttamente con il pubblico. E lo hanno fatto dalle loro stanzette, come Billie Eilish, parlando la loro lingua fatta di sgrammaticature (il ma però di Madame), parole tronche, parolacce, modi di dire, alfabeto Leet. Nuovi codici che, in musica, divantano trap, autotune, D.I.Y. (“do it for yourself”): finalmente liberi!

Ma liberi da cosa? Liberi da noi, generazione nata nel vecchio Millennio, vissuti con la mentalità fascista del Codice Rocco in cui vigeva l’istituto del matrimonio riparatore (estinzione del reato di violenza sessuale se lo stupratore di una minorenne acconsentiva poi a sposarla, salvando l’onore della famiglia di lei), cresciuti con il delitto d’onore (abrogato solo nel 1981) e il reato di adulterio (abrogato solo nel 1968), senza una legge per divorzio (1970) e aborto (1978). Ma soprattutto uomini (molti) e donne (poche) affetti da pavonismo ideologico, portatori insani di false morali ipocrite, efficacissime nel comunicare se stesse ma indifferenti alla loro messa a terra: siamo stati totalmente privi di quella generosità e quella capacità donativa che è fisiologicamente necessaria per fare in modo che un’intenzione si trasformi in azione valoriale.

Abbiamo perso di credibilità e autorevolezza: il pianeta sta morendo, e con lui (lei) i nostri figli, quelli che adesso si esprimono con sentimento e autenticità dalle loro stanze, dai palchi virtuali dello streaming, dentro e fuori dal ruolo (come Fedez, rapper che però prende posizioni forti nel dibattito socioculturale italiano), come appunto Damiano, che con orgoglio rivendica non solo la sua camicia crop trop, ma tutta la sua femminilità: liberi di essere.

La generazione Z è infatti la prima ad aver vissuto l’epoca dei matrimoni omosessuali, sono ragazzi e ragazze che ricercano la soddisfazione personale in un impiego legato alle loro passioni più che a un salario, che considerano più importante il well-being (“economia della felicità”) rispetto al capabilities approach, alla performance, che si considerano leali, compassionevoli, riflessivi, di mentalità aperta, responsabili e determinati (qui lo studio). Persone gender fluid o comunque felici di oscillare tra le rappresentazioni del maschile e femminile, senza turbamenti legati all’orientamento sessuale.

E allora eccoli, i nostri eroi, i rivoluzionari 4.0, coloro che salveranno il mondo, quel mondo rotto e morente che abbiamo lasciato loro sulle spalle mentre eravamo concentrati a sfruttarlo per accumulare dominio e competere invece di cooperare, infarciti di parole vuote tra cui giustizia: peccato mortale, soprattutto per aver dimenticato la giustizia intergenerazionale. Willie Peyote, Frah Quintale, Rancore, Capo Plaza, Massimo Pericolo, Carl Brave, Franco 126, The Supreme, Sedho, ma anche tante donne, prima tra tutte Madame e Myss Keta, ma anche Ariete, Mara Sattei, Anna, Chadia Rodriguez, italiana di origini marocchine. Ma razzolando su Spotify ne escono di continuo. Eredi degli ormai veterani Fabri Fibra, Gué Pequeno, Salmo, Coez, Tommaso Paradiso, Marracash, Gemitaiz, Fedez, Achille Lauro, Calcutta, Ghali, Mahmood.

Ascoltateli, seguiteli, entrate con umiltà nel loro mondo, fatto di slanci, empatia, emozione, tutt* raccolti intorno a valori di inclusione, pluralismo, umanità che non vengono enunciati ma che sono introiettati, senza bisogno di catalogare gusti e identità sessuali, di distinguere tra immigrati di prima o seconda generazione, di slogan altosonanti: si canta, si vive per liberarsi di un’eredità mastodontica (musicalmente, politicamente, culturalmente) ma che, finalmente diciamolo, ha fallito.

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