Il mio amico Calvino scriveva: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio“.

In questo momento di incredibile spaesamento, in cui crollano punti fermi, basi sicure, alfabeti esistenziali, bussole personali e puntini sulle i, in cui si frantumano routine e abitudini che fanno da riferimento e collante delle nostre vite, personalità e relazioni, in questa entropia capace di rimettere in discussione qualsiasi orizzonte di senso intorno a cui gran parte della comunità umana si è organizzata, spunta l’inaspettato. Torna limpida l’acqua a Venezia, i delfini sulle coste, l’aria si fa pulita, la solidarietà planetaria scavalca i confini con una forza uguale e contraria al virus.

La poeta Gualtieri ha dedicato una lunga poesia alla tragedia di questo momento, e in un passo, proprio, dice: “È portentoso quello che succede. E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano. Forse ci sono doni. Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo”. Anche dal passato arrivano geni capaci di trovare l’oro nel fango: “La peste aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti”, scrive Camus.

Il progetto Biosphere2 in Arizona e quello HI-SEAS alle Hawaii hanno entrambi testato le dinamiche sociali di piccole colonie umane in condizioni simil-marziane, ossia di isolamento sociale. Durante simulazioni condotte dalla NASA, i partecipanti hanno riportato uno stato costante di stress ed ansia, paura e angoscia (nel caso di Biosphere2, la simulazione sfociò in significativi episodi di conflitto tra fazioni di partecipanti).

Al senso di isolamento fisico infatti corrisponde quel senso di disconnessione spesso registrato da molti astronauti come una sorta di traumatica cancellazione delle forme familiari di supporto e della rete di significati di riferimento, personali come culturali. Stiamo effettivamente vivendo un estraneamento planetario e concordo con Murakami: “Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato”.

Le vite che avevamo non torneranno mai più, questo è certo. Saranno cambiati i nostri pensieri, le nostre relazioni, le paure, i sogni, le abitudini, gli atteggiamenti. Avremo vissuto emozioni che mai avremmo creduto di poter provare, avremo scoperto lati di noi stessi che non conoscevamo, così come dei nostri amici, dei nostri partner, dei nostri figli e dei nostri genitori. Guarderemo in modo diverso alla politica, ai politici, alla sanità, alla società nel suo complesso. Al Pianeta. Alla vita. Forse a Dio. Ma le persone che diventeremo, ecco, questo, dipende da noi stessi.

Se pensiamo che quel bellissimo fiore bianco che è il fiore di loto, che apre i suoi petali al primo raggio di sole e li richiude quando scende la notte, ecco, lui (o lei?) vanta un candore, una purezza, che è tale nonostante (o proprio per il fatto che?) viva in acqua stagnante, con le radici affondate nel fango: la grande opportunità che abbiamo in questo momento, come singoli e come parte del cosmo, è quella di cambiare il nostro destino e quello di tutta l’umanità, di trasformare il veleno in medicina, di sviluppare risorse che non credevamo di avere e che possono generare valore nelle nostre vite e in quelle degli altri, magari anche ristrutturando aree che prima risultavano abbandonate, distrutte, incolte. Come dice Daisaku Ikeda: “La rivoluzione umana in un singolo individuo contribuirà al cambiamento nel destino di una nazione e condurrà infine a un cambiamento nel destino di tutta l’umanità”.

#ilvelenoèmedicina è l’hashtag che lancio per scrivere in 5 righe quelle che secondo voi sono opportunità che possiamo sviluppare a partire dalla catastrofe generata dal Coronavirus. I più belli verranno pubblicati e distribuiti come forma di incoraggiamento e per imparare che, grazie all’impermanenza, impariamo la resilienza, ossia la più intelligente forma di adattamento che Homo Sapiens abbia mai saputo sviluppare: https://www.facebook.com/eugeniaromanelliautrice/.

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