Se lui ti porta su un letto vuoto, il vuoto daglielo indietro a lui, fagli vedere che non è un gioco, fagli capire quello che vuoi. E se si attacca col sentimento, portalo in fondo ad un cielo blu, le sue paure di quel momento, le fai scoppiare soltanto tu: ditemi se questa non è una lezione di femminismo. Goditela, donna, prendi il piacere che ti va, a cui hai diritto, e, mi raccomando, che non sia squallido, in caso, lascia perdere, e poi, ricorda: innamorarti non è un obbligo per fare un buon sesso. Daniele Pace e Franco Bracardi, quando lo scrissero, chiesero a lei.

Certo, il registro non è quello di Luce Irigaray, ma qui non siamo dietro a una scrivania, o in cattedra, e nemmeno su uno scaffale di una libreria imponente, siamo nel cuore del pop. Un regno dove chi ha talento riesce a tradurre significati profondissimi in slogan e spot. Weltanshauung volgarizzate, semplificate e per questo potentissime, come un quadro di Warhol, perchè riescono a parlare a tutt*, in modo immediato, a farsi capire senza il diaframma dell’erudizione, passando per l’emozione, il gioco, il divertissement.

Raffaella Maria Roberta Pelloni, nell’autunno 2020, era stata definita dal quotidiano britannico The Guardian «L’icona culturale che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso». Stiamo parlando di una classe ’43, non so se rendo. Un altro che considero “premio” fu quello ricevuto nel 1984, quando l’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi la definì “immorale e scandalosa”. Una donna disinibita ma mai irriverente, libera ma mai trasgressiva, una vocazione alla vitalità senza mai essere provocatoria: una lottatrice di fatto, probabilmente a sua insaputa. Lottatrice come lo è chi percorre la propria vita con autenticità senza tradirne mai il corso, nonostante i soldi, la notorietà, il successo. Una sorta di cocktail perfetto, quello che riesce a mixare con grazia l’ambizione, la passione, la determinazione con la generosità, il dono, la condivisione.

Non è semplice per una ballerina, soubrette, cantante e attrice che si affermava negli anni ’60, in una cultura che masticava il Codice Rocco, in cui vigeva l’istituto del matrimonio riparatore (estinzione del reato di violenza sessuale se lo stupratore di una minorenne acconsentiva poi a sposarla, salvando l’onore della famiglia di lei), cresciuta con il delitto d’onore (abrogato solo nel 1981) e il reato di adulterio (abrogato solo nel 1968), senza una legge per divorzio (1970) e aborto (1978). Eppure Raffaella restava se stessa, un’esplosione di vita che dava scandalo (occupò la cronaca del 1970 per quell’ombelico scoperto nella sigla d’apertura Ma che musica maestro! e fu censurata dalla RAI per il suo Tuca Tuca), proprio mentre trasformava per sempre la storia mondiale delle showgirl.

Ed è per questo che è diventata una icona queer, osannata dalla comunità LGBTQI+ di tutto il mondo, con i suoi look imitati da mille drag queen: non solo per le infinite volte in cui Raffaella si è dichiarata a sostegno dei diritti arcobaleno, ma per il modo di interpretare la sua stessa vita, con quella leggerezza che, Calvino ci insegna, “non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore. Uno stile di personalità che, senza slogan, esprimeva inclusione, apertura, pensiero divergente, pluralismo, accoglienza, valorizzazione delle diversità, ironia, autoironia, saper vivere e savoir-faire, fronteggiando ostacoli e difficoltà senza gravità e con responsabilità, proprio come dimostra il modo con cui è morta: senza disturbare nessuno.

Sono d’accordo con Luxuria, che oggi ha twittato “Farai ballare gli angeli“, lei, che nel 2017 fu eletta madrina del World Pride a Madrid, ritirando il riconoscimento nell’ambasciata italiana, per “il coraggio, l’energia, la libertà”.

«Morirò senza saperlo – aveva scherzato – sulla mia tomba lascerò scritto: Perché sono piaciuta tanto ai gay?». Te lo dico, io, amata: perchè non sei mai arretrata di fronte a ciò che non ti corrispondeva, non hai mai permesso che venisse inibito il tuo slancio, il tuo stile, il tuo carisma, il tuo talento, umiliata la tua personalità, frustrata la tua espressività, ma, al contrario, sei andata avanti per approfondire, con gentilezza, curiosità, ironia e allegria, e hai vinto tu, affermandoti nella tua unicità che, oggi, è un esempio, l’eredità più importante che lasci: il diritto e la possibilità di essere se stessi. Sempre. In qualunque modo.

Vi lascio con le sue parole a Vanity Fair, nel 2017: “Mi hanno cresciuta due donne. Tre, contando la nurse inglese: severissima. Mia mamma Angela Iris fu una delle prime a separarsi nel dopoguerra. Non si risposò più. Nonna Andreina era rimasta vedova di un poliziotto. Poi arrivano gli anni della scuola e del centro di cinematografia a Bologna: uscivo solo con i gay. Quando in sala faceva buio, loro non cercavano di tastarti. Il babbo ogni tanto mi telefonava per chiedermi se ero ancora vergine, minacciando in caso contrario di togliermi da mia madre e dal centro sperimentale. Ero così terrorizzata che fino ai 18 anni non mi sono lasciata toccare con un dito”.

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