Spoiler alert: non leggere se non hai visto il film.
Ho portato mia figlia (meno di 10 anni) a vedere Barbie, dopo aver letto di tutto e di più in area recensioni: mi ero fatta l’idea che fosse femminista-fico (al di là delle critiche delle femministe stesse, perché ormai lo so che nelle bolle ci facciamo guerre di potere invece di allearci per un comune obiettivo).

Sono uscita in lacrime (solo io mi sono commossa, ho chiesto in giro, quindi prendetela come una personale disregolazione emotiva) perché ho trovato molto potente la scelta di Barbie di morire pur di sentirsi viva, con tutte le imperfezioni e le complicazioni che esserlo implica, a cominciare dall’avere una vagina.

Credo che la mia commozione si sia amplificata per il fatto di avere visto questo geniale spottone della Mattel con mia figlia, una futura donna, a cui sto per lasciare il testimone della fertilità (ah già, forse la mia disregolazione è dovuta alla pre-menopausa!).

 

 

Ero felice, in sala, di offrirle la possibilità di ragionare su questioni (il patriarcato, una su tutte) che la mia generazione (sono del ’72) ingollava inconsapevolmente come principio di realtà. La guardavo spesso di nascosto, per vedere le sue espressioni, per cercare di capire se afferrava le battute, che emozioni provasse.

Uscita dal film ha trovato una incongruenza nella sceneggiatura, evidentemente molto interessata sull’argomento: “Mamma, non ha senso che quelli della Mattel credono a Barbie quando chiede di fare la pipì per poter scappare, perché lei, come aveva detto agli operai, non ha la vagina!“.

Dove frana il film

In realtà, la tragedia della sceneggiatura è un’altra, a mio avviso imperdonabile a Greta Gerwig e al suo compagno Noah Baumbach – sceneggiatrice (oltre che regista) e sceneggiatore – visto il capolavoro realizzato.

 

 

La tragedia che fa franare l’intera impalcatura del lungometraggio non è il criticato sessismo all’inverso (contro i maschi), nemmeno il femminismo pop e vagamente aziendale (benvengano tutti i femminismi, come dirà Murgia), bensì la soluzione trovata dalle Barbie per riprendersi il governo su Barbieland usurpato dai maschi: la manipolazione.

Il piano, infatti, consiste nell’usare il potere della seduzione per poi, una volta sedotti, far litigare i maschi tra loro suscitando gelosia. Questa scelta narrativa decreta il fallimento di tutto il discorso messo in piedi: ancora una volta, Barbie non porta competenze, abilità e valore ma la sua avvenenza, che diventa un pasto per il maschio predatore che vuole sentirsi padrone.

Barbie quindi abusa dei Ken manipolandoli, rinforzando lo status quo dell’indistruttibile patriarcato. Lo schema terrificante del finale della sceneggiatura è: io ti faccio credere di essere tua, così tu sei felice; a quel punto, sfruttando la tua condizione di sereno appagamento, insinuo in te il dubbio di non essere proprietario assoluto della mia persona, mostrando di essere predata anche da altri (NB: non di essere dotata di libero arbitrio, desideri e capacità di controllo e scelta: ma di essere preda).

A quel punto ti armo della tua rabbia e gelosia per farti combattere contro i tuoi rivali, distraendoti da me (che quindi sono libera come conseguenza di una tua azione).

Usciamo dal modello bellico
del conflitto maschio femmina

A parte aver perso l’occasione di mostrare l’omosessualità insita in questo tipo di schemi (il bacio tra i due Ken rivali durante il balletto sarebbe stato un ulteriore sfoggio di genio), il finale torna su se stesso umiliando l’intero slancio femminista del film e riconfermando le donne come subdole, false e bugiarde, oltretutto pericolose perchè sleali.

Se il film avesse proposto come scatto evolutivo una riscrittura dei rapporti tra maschi e femmine, uscendo dal modello bellico del conflitto per trasformarlo in alleanza, se avesse avuto il coraggio di andare fino in fondo, rappresentando donne che affermano il proprio potere attraverso percorsi di valore e senza artifici, e uomini dotati di consapevolezza, complessità e capacità di ascolto, forse mia figlia non si troverebbe a dover scegliere, come le indica questo film, se piacersi o compiacere.

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