La moglie suicida, sei figli da crescere, nessun lavoro. Detta così sembra una tragedia, e forse lo è in senso assoluto, ma tutto, sempre, dipende dal punto di vista. Quello della coppia protagonista, i coniugi Ben (Viggo Mortensen) e Leslie Cash (che non compare quasi mai), di certo era profondamente vitale, quando decisero, prima della morte di lei, di abdicare dal mondo capitalista e consumista americano per vivere liberi nella foresta, seguendo un sistema pedagogico autodidatta con l’intento rivoluzionario di allevare una prole intellettualmente autonoma.

Però Leslie era borderline e rifiutare le cure psichiatriche tradizionali non deve averle giovato, visto il suicidio. Ma perfino l’evidenza non può avere una sola interpretazione drammatica, secondo Ben, fedelissimo alla linea. In fondo, anche quella scelta anarchica è indice di indipendenza e rifiuto di una schiavitù a certi paradigmi.

Quando il padre di Leslie dispone un funerale tradizionale, Ben si infuria e, nonostante venga minacciato dal suocero con l’arresto se dovesse presentarsi in chiesa (anche solo per aver privato i figli della scuola), parte con il suo pulmino e i suoi figli a bordo.

L’anticonformismo di Captain Fantastic

Quando però i figli entrano in contatto con la vita civilizzata, la loro adesione incondizionata alla vita nella foresta vacilla. Bo, ad esempio, appassionato dello scibile umano, fa coming out e racconta di aver partecipato (e vinto) alle selezioni dei più prestigiosi college statunitensi. Solo a quel punto, Ben crolla, mettendo in discussione la sua utopia di libertà e riconsiderando le sue scelte estreme.

Captain Fantastic è uscito nel 2016 scritto e diretto da Matt Ross e presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival, per poi essere proiettato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2016, dove ha vinto il premio per la miglior regia, oltre a vari altri riconoscimenti internazionali: un film che vale la pena vedere per il suo aspetto provocatorio, irriverente e sfidante.

Un film che pone quesiti apicali sulla genitorialità, sulla libertà, sulle convenzioni. Un film sincero che, dopo avere affermato una posizione ferrea, dogmatica, ideologica, è capace di cambiare punto di osservazione (dal padre al figlio) e mettere in discussione se stesso.

Un film che ci lascia allibiti e allibite, di fonte alle nostre ambivalenze: noi, che desideriamo vivere una vita autentica e rispettosa delle nostre unicità ma che anche abbiamo bisogno di sentirci integrati, di appartenere, di lasciarci cullare da una certa omologazione e uniformazione pur di non sentirci soli e nudi a combattere contro tutto.

Gli aspetti autobiografici del film

L’idea del film è parzialmente biografica: la sceneggiatura è stata scritta di getto dopo una discussione con la moglie di Ross sulle scelte educative dei loro figli: come sarebbero cresciuti senza alcuna intrusione tecnologica, in una partecipazione al 100% di loro come genitori?

Ross stesso è cresciuto in una comunità alternativa hippie della Northern California (la stessa dove sono cresciuta io, credo, se è quella in cui viveva anche l’artista Narcissus Quagliata).

A voi l’ardua sentenza.

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