Da due anni vediamo il viso delle persone a metà. Da due anni guardiamo l’altro/a come potenziale pericolo, e ci disinfettiamo. Da due anni facciamo riunioni da remoto senza percepire l’energia altrui. Da due anni, a causa della pandemia, abbiamo ridotto drasticamente le nostre uscite di svago, non frequentiamo locali, non condividiamo il nostro tempo libero con persone che non siano strettamente nella nostra cerchia di familiari o amici stretti. Adesso forse sta cambiando qualcosa, ma quei due anni sono stati vissuti.

Su di me e su molte altre persone, questo fatto ha determinato una sorta di depressione reattiva e forse anche una parziale atrofia delle competenze relazionali, proprio per il prolungato isolamento.

In poche parole, più si sta da solə, meno si ha voglia di uscire dalla solitudine. Come se ci si abituasse ad una condizione di privazione. Le persone maggiormante a rischio, se ne è parlato molto, sono i bambini e gli adolescenti, ma anche sugli adulti l’effetto non manca, e si potrebbe parlare di long Covid anche in questo senso, una sorta di coda depressiva.

Se per gli esploratori la propria casa è il mondo, se per i pendolari le lunghe distanze diventano più piccole, se gli amori lontani sbriciolano i chilometri, per chi vive dentro quattro mura anche scendere a mangiare qualcosa con un amico sotto casa può diventare faticoso.

La famosa comfort zone, lo sappiamo, è l’area dentro la quale organizziamo la nostra vita al riparo dalle ansie, dalle preoccupazioni, per alimentare la rassicurante sensazione di mantenere il controllo sull’imprevedibile, da sempre così spaventoso.

Il problema è che dopo due anni tra le quattro mura a causa della pandemia, anche quando le mura si aprono, i contagi calano, arriva l’ennesima estate che depotenzia i virus, decadono gli obblighi di mascherine e le misure emergenziali, non è così immediato ricominciare a darsi alla vita, ritrovare quelli che erano i propri desideri, tornare a sentire i propri bisogni senza temerne la frustrazione, recuperare la spensieratezza, la leggerezza.

In fondo adattarsi è una forma di intelligenza: il termine adattamento in biologia si riferisce alla facoltà degli organismi viventi di mutare i propri processi metabolici, fisiologici e comportamentali, consentendo loro di adattarsi alle condizioni dell’ambiente nel quale vivono.

E’ paradossale che ci troviamo quasi a doverci riabilitare a doverci ri-adattare alla vita pre-pandemia, a recuperare e riattualizzare, incarnandola, la memoria del piacere di stare con gli altri, godere delle condivisioni, del contatto, dell’empatia, di quella seduzione innata che si innesca nelle nuove conoscenze o amicizie, il gioco, il flirt, gli slanci.

Purtoppo non è semplice accorgersi che si sono alterate, forse anche in parte ridotte, alcune competenze sociali che ci appartengono fin da bambinə: progettare, comunicare, comprendere l’altro, sentirlo, empatizzare, rappresentare, collaborare, partecipare, interpretare chi si ha di fronte, acquisire informazioni, apprendere.

Non è semplice perchè durante la pandemia il contatto da remoto, mediato dalla tecnologia, ci ha creato una falsa credenza, una rappresentazione errata di noi stessə, illudendoci di non aver mai smesso di interagire. Ma allora perchè ci affatica l’idea di progettare un viaggio? Di prendere un treno? Di attraversare la città? Di incontrare persone che non si conoscono? O magari di andare a una festa, di prendere un aperitivo, di parlare in pubblico?

Il consiglio che mi ha dato uno psichiatra è provare a spostare ogni giorno un po’ più in là il raggio delle azioni quotidiane (la zona di comfort appunto), forse d’accordo con Alasdair White quando, nel 2009, diceva che appena oltre i confini della zona di comfort vi sarebbe una zona di prestazione ottimale (optimal performance zone) dove le performance personali possono essere migliorate al costo di una piccola quantità di stress.

Il movente per questo scatto potrebbe essere la memoria della gioia diffusa grazie alla connessione con gli altri. In fondo, tutti noi abbiamo qualche esperienza dell’energia sprigionata dalle nostre relazioni: siamo stati contagiati spesso dalle emozioni altrui, abbiamo subito il magnetismo di alcuni gesti, delle parole, dei movimenti, visto la luce di chi abbiamo di fronte.

Ce lo insegnano lo studio delle emozioni, la Teoria della Mente, la psicologia sociale, la medicina cinestesica, l’intelligenza corporea, la psicologia sistemico-relazionale e anche la fisica quantistica: ogni cellula, fibra nervosa, rete neurologica e tessuto del nostro corpo ha bisogno di energia per funzionare, siamo mossi da un’intera rete di impulsi ed è lì che i neuroni comunicano tra loro, formando onde cerebrali elettriche in base a quello che facciamo, pensiamo o sentiamo in ogni istante, e anche in base a chi incontriamo.

Come i nostri stati d’animo lasciano le loro impronte nel contesto in cui ci troviamo, accade anche viceversa, e il nostro improvviso disagio o buon umore, i nostri colpi di fulmine ne sanno qualcosa.

Intanto, per comprendere meglio che cosa stiamo vivendo, potrebbe essere utile leggere Il secolo della solitudine di Noreena Hertz: il racconto dolente della condizione in cui ciascuno di noi è venuto a trovarsi ma anche una sfida a trasformare questa economia disumanizzante in un sistema più sostenibile attraverso interventi mirati dall’alto e dal basso, come maggiori investimenti nel welfare, ricostruzione delle comunità locali, banche del tempo e condomini solidali.

È un invito a riscoprire e cementare i valori della collaborazione e dell’altruismo, la celebrazione del singolo non come atomo isolato ma come parte integrante di una comunità. Insieme, forse, si può affrontare e superare il trauma di questa pandemia così difficile da accettare, sia in termini di tristezza che di rabbia.

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