“Della lotta con te, come di bere quando ho sete, così ho desiderio”, scriveva Saffo. Negli scavi di Bam (Persia) sono stati ritrovati manoscritti che dimostrano come la restrizione dei normali movimenti del corpo a scopi erotici fosse già praticata dai Medi (antico popolo iranico, VI sec. a.C.). L’arte del bondage occidentale contemporaneo, tuttavia, deriva da quella giapponese dello Shibari (o Kinbaku). In particolare l’hishi è oggi diventata icona tra le varie tecniche giapponesi e prevede sequenze sofisticate di passaggi di corda e di nodi, effettuati lungo l’asse anteriore e posteriore del corpo, costruendo delle figure geometriche a rombo da cui prende il nome (hishi, diamante). Stiamo parlando del talento di chi pratica la costrizione fisica e mentale del partner nel saper sviluppare emozioni intense sia in chi viene (consensualmente) costretto sia in chi (eventualmente) guarda.

La costrizione è dunque l’elemento centrale del bondage e viene spesso rappresentato dall’arte di legare (o arte del legame, direi) come metafora e simbolo di quello scambio di fiducia che costruisce la base di ogni relazione che sia all’altezza di questa parola. Che si usino corde, bavagli, cappucci, catene o semplicemente si limiti col proprio corpo la possibilità dell’altro di muoversi, parlare guardare, etc, di fatto il soggetto di questo ménage è la consensuale limitazione delle capacità sensoriali da parte di un partner sull’altro.

Nel DBSM (insieme di pratiche relazionali e erotiche di cui il bondage fa parte), il Master (o Mistress) e lo Slave sono ruoli (se l’incontro è occasionale) o indoli (se esercitati nel tempo in una relazione duratura). Sono nomi in codice che di fatto raccontano tendenze “top” o “bottom” a seconda del benessere fisico e psicologico nel trovarsi in una situazione di azione o passività. Il fine ultimo resta il benessere di entrambi i partner, anche in chi prevale l’idea che il proprio piacere non sia garantito ma dipenda dall’arbitrio di un’altra persona.

E’ molto superficiale l’opinione che riduce questo tipo di intenso ménage sentimentale, emotivo e sensuale al sadismo di un carnefice sulla sua vittima: se è vero infatti che il “master” è gratificato dal potere che può esercitare sul partner, è anche vero che lo “slave” è gratificato dall’assenza di quel potere che spesso è fonte di stress.

Quello che raramente viene raccontato (suggerisco il mio articolo sul ReWriters mag-book di luglio-agosto 2020 o la visione di uno dei film tra i più autentici e poetici che io abbia mai visto sul tema, “Secretary“, Premio speciale della giuria al Sundance Film Festival nel 2002) è che in una relazione d’amore BDSM la tenerezza regna padrona. E questo proprio perchè dove c’è consapevolezza e consensualità non c’è né dolore né tensione emotiva, ma solo grande rilassamento per entrambi i partner.

Per questo in psicologia si parla di aftercare e perfino di relazioni terapeutiche: una ricerca basata sulla somministrazione di questionari psicologici sia a soggetti praticanti il BDSM sia ai non praticanti, ha evidenziato che gli amanti del BDSM risultano più estroversi, più aperti a nuove esperienze, più coscienti di sé e meno nevrotici rispetto ai cosiddetti “normali”. Secondo i ricercatori, il mènage della coppia BDSM avrebbe una maggiore consapevolezza dei propri bisogni e desideri sessuali, con la conseguente diminuzione della frustrazione nelle relazioni fisiche ed emotive che tutto ciò implica (Andreas A.J. Wismeijer, Marcel A.L.M. van Assen, Psychological Characteristics of BDSM Practitioners, in The Journal of Sexual Medicine, vol. 10, n. 8, agosto 2013).

Del resto abbiamo scoperto l’acqua calda: già il vecchio Freud scriveva che “L’Eros e la pulsione di morte entrerebbero in azione sin dal primo apparire della vita e lavorerebbero l’una contro l’altra”, rinforzando quindi l’idea che, se al contrario integrate, pulsioni opposte possono produrre armonia e salute psicologica. Ed ecco che la messa in scena consensuale tra due partner, in un talamo o in una relazione affettiva, di tutte le pulsioni, comprese quelle aggressive o giudicate scandalose e indecenti, può restituirci in nostro vero sè da donare all’altro e permetterci di accogliere l’altro nella sua interezza, tornando ad essere persone integrate, libere, consapevoli, capaci di benevolenza verso se stessi e di rispetto dell’altro, e anche agenti di un amore autentico che non si declina mai in predazione o rifornimento.

Tuttavia, concordo che occorra tracciare dei confini per il BDSM, e allora ricordo la famosa formula coniata dall’attivista David Stain nel 1984: “Safe, Sane and Consensual” (SSC), che ben distingue il tipo di S&M sano “da quello abusivo, criminale, nevrotico e autodistruttivo generalmente associato con il termine sadomasochismo”.

Per chi volesse approfondire, suggerisco la Scuola di Bondage di Roma.

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