Forse una delle storie di sopravvivenza più incredibili che si conoscano. Dopo il passaggio a Venezia e l’ingresso in shortlist come film internazionale ai prossimi Oscar e la nomination ai Golden Globe, appena sbarcato su Netflix, il terzo più visto in Italia al momento in cui scrivo, La società della neve lascia senza fiato.

Un lavoro che si distanzia dall’indimenticabile Alive, che ha colonizzato l’immaginario degli anni ’90, perchè elabora il tabù dei tabù del nostro mondo: il cannibalismo di cui, per salvarsi, i sopravvissuti fecero pratica.

Produzione tra Spagna, Uruguay e Cile (quindi molto distante da Hollywood), il titolo è anche quello del libro di Pablo Vierci da cui il film di J. A. Bayona è tratto e insiste su focus del film: il nuovo contratto sociale che nasce in una piccola comunità dimenticata dalla civiltà, basato sul compromesso etico in nome della sopravvivenza.

“La società della neve”, i fatti.
E la sofferta decisione dei superstiti

I fatti sono ampiamente noti a tutt*: il charter Fokker FH-227D della Fuerza Aérea Uruguaya con a bordo la squadra di rugby dell’Old Christians Club con amici e parenti (in tutto 45 passeggeri) si schianta sulle Ande a 4000 metri il 13 ottobre del 1972. Ne sopravvivono inizialmente 29 ma per via delle ferite non curate e di valanghe e tempeste, con notti a -30 gradi, due mesi e mezzo dopo (72 giorni) vengono ritrovati solo 16 superstiti, ancora in vita grazie alla sofferta decisione (dopo 10 giorni di digiuno) di mangiare i corpi dei compagni morti.

L’atto cannibalico che, fuori da narrazioni preistorico-tribali, sembra disintegrare ogni senso dell’umano, per quei ragazzi fu invece un’esperienza mistica di solidarietà, quindi profondamente morale:

«Non c’è gesto d’amore più grande che dare la vita per gli amici»,

disse poco prima di morire Numa, in una sorta di testamento biologico, trovando il senso della propria vita e lasciandosi con serenità nel sonno.

«Nel donarsi si mantiene la dignità

spiega il regista, che ha intervistato i 16 sopravviassuti, tutti ancora in vita.

In una situazione estrema in cui tutto è perso, a restituire umanità è la scelta di come morire. Sono sicuro che, per molti di loro, è stata un’esperienza trascendente. Una soluzione tanto estrema quanto mistica: la morte nutre la vita. Non ho voluto un film religioso, intendiamoci, ma spirituale».

L’angoscia. Nessun dio, nessun disegno

Non saprei dire se sia un bel film, o se consigliarne la visione, vista l’angoscia che scatena. Visto che non c’è catarsi nè liberazione e nemmeno elevazione alcuna: sembra che in effetti non ci sia nessuno, oltre noi, nessun dio, nessun disegno.

A fine lungometraggio resta il brivido del caso, della vita come evento esclusivamente autoesplicativo, senza senso e senza finalità:

«Ho più fede di quanta ne abbia mai avuta ma credo in un altro dio. Da qui non si possono vedere le cose come prima

– dice Arturo a Numa.

Credo nel dio che Roberto ha in testa quando mi cura le ferite. In quello che ha Nando nelle gambe quando cammina instancabile. Credo nella mano di Daniel quando taglia la carne e in quella di Fito quando la distribuisce, senza dirci di chi fosse, perché possiamo mangiarla senza ricordare il loro sguardo da vivi. Credo in loro e nei nostri amici morti».

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