Io stravedo per Paolo Sorrentino, lo considero un genio della caratterizzazione dei personaggi, quindi attenzione: ho un pregiudizio positivo. Detto questo, comprendo chi lo detesta, o non ne è convinto pienamente, e credo che anche E’ stata la mano di Dio potrà lasciare gli stessi dubbi di sempre.

Ma facciamo una cosa alla volta. Avrete letto qualche informazione qui e là sul web, immagino, dunque già sapete che il regista firma il suo decimo film, stesso numero della maglia di Maradona, a cui l’opera è decisamente dedicata, e che siamo davanti a una vera e propria autobiografia, forse una sorta di restituzione (piena di gratitudine) per il successo planetario ottenuto nei 34 anni dalla sua dipartita da Napoli (scena finale del film).

Di sicuro si tratta di un film che risponde alla domanda che il regista Antonio Capuano fece a Fabbietto (Sorrentino), quando aveva 17 anni: ma tu ce l’hai qualcosa da raccontare o sei uno stronzo come tutti gli altri? E’ una domanda che pone fine a un dialogo urlato sul dolore, messo in scena davanti al mare, all’alba: la domanda che permette al regista adolescente, finalmente, di gridarlo il suo dolore, dopo una lunga paralisi senza lacrime per la morte accidentale dei genitori. Di gridarlo e, 34 anni dopo, di rispondere con un film, questo.

Il dolore di Paolo Sorrentino è di non aver potuto salutrare i suoi genitori, morti per una perdita di monossido di carbonio mentre erano in vacanza a Roccaraso. Di non aver potuto vedere i loro cadaveri perchè altrimenti “ti spaventeresti“, gli dice il medico di guardia, quella notte, al Pronto Soccorso. Una perdita che lascia Fabbietto paralizzato, senza riuscire a piangere, per lungo tempo.

Forse nemmeno oggi, ed è proprio questo che gli rimproverano tanti critici: di essere eccessivamente estetizzante. Ossia freddo, distaccato (traduco io, sperando di interpretare cosa sottende quella critica). Perchè sì, in effetti Sorrentino potrebbe assomigliare a un voyeur, perfetto e lucido nella descrizione di ciò che vede, mostruosamente bravo a costruire personaggi tridimensionali, talmente credibili che a volte sembrano acquistare indipendenza dallo schermo e scendere in sala ed entrare nel mondo, da quanto sono reali.

Eppure, anche in questo film che dovrebbe essere la catarsi di quel dolore, chiave per la liberazione definitiva come uomo e come artista, Paolo-Fabbietto resta dietro la macchina da presa, protetto da un diaframma che non gli permette di coinvolgersi nella sua stessa autenticità, e, ahimè, si sente. Quindi, mentre maestosi nascono, uno dopo l’altro già dai primi minuti di film, i personaggi ricchissimi e straordinari della sua storia, della sua famiglia, mentre siamo impastati di empatia verso due genitori sui generis, sedotti dall’irriverenza della madre, simpaticissima, allegra, appassionata, dalla lealtà del padre, pur corrotto dalle correnti della vita, quando – nella seconda parte del film – l’occhio di bue è su di lui, Fabbietto, il film diventa gelido, siderale, chirugico, perfetto come mai è, al contrario, la vita.

Ed è proprio in quel pianto di spalle, verso i 3/4 della storia, l’occasione persa per Sorrentino: la possibilità di piangere per davvero, mostrandosi veramente.

Ma pietismo psicoanalitico a parte, resta per me un capolavoro di regia, luci, montaggio, inquadrature, interpretazioni, e un’occasione per comprendere che cos’è una famiglia, bellissima proprio per tutte le sue contraddizioni e indecenze.

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