Chi c’è stato lo sa: un suo concerto resta scolpito nel cuore come una delle esperienze più emozionanti da ricordare nella vita. Quindi: in agenda. Subito. Alessandra Celletti torna a calcare le scene il 15 aprile al Monk di Roma, alle ore 18.51 in punto, per il tramonto. Promesso: sarà un evento artistico di interesse mondiale.

Non sono una critica musicale ma sono un’ascoltatrice attenta, soprattutto perché, quando ero alla direzione del Time Out per l’Italia, o di SmarTime per Il Fatto Quotidiano, o di Bazarweb con La Stampa e Rai Eri, facevo molta attenzione alle proposte di recensione dei collaboratori esperti di musica: per me era importante che il mio giornale fosse un degno competitor delle riviste secializzate. Bene. Nei quasi 20 anni di carriera che ormai posso vantare alle mie spalle, raramente mi è capitato per le mani un distillato d’artista come Celletti. Una compositrice di altissimo livello, un’interprete timida ma liquefatta dentro alle sue note come nemmeno un pesce nel suo mare, una voglia di sperimentare tra i generi e di sviluppare valore attraverso le collaborazioni con gli artisti più interessanti della scena internazionale, un ribrezzo per la notorietà, per il protagonismo, per la mondanità, da renderla, come i più grandi talenti di tutti i tempi, quasi un’emarginata, in questo mondo di plastica. Ma, soprattutto, un temperamento musicale da far rabbrividire. Per un ripasso veloce, o per chi non la conoscesse, guardate intanto questa intervista, un servizio ben girato e ben montato che rende onore al suo lavoro e al suo impegno per sviluppare valore nel mondo.

Eccola di nuovo, dunque, a quasi due anni di distanza dall’ultimo concerto romano al Romaeuropa Festival del 2016, in pista con i suoi occhi di ghiaccio, coi suoi capelli ribelli, con quei suoi abiti da fata futuribile, metà robot e metà angelo, per presentare “Sacred Honey”, il nuovo album, che la pianista ha dedicato alla musica di Gurdjieff. Ventesimo album a vent’anni da “Hidden Sources”, quel suo primo disco, un esordio memorabile, appunto dedicato alle musiche di Gurdjieff (e De Hartmann). “In quel periodo – racconta Celletti – vivevo a Praga e i paesaggi misteriosi e ipnotici dell’Asia centrale evocati da queste composizioni si confondevano con la neve e il freddo pungente della capitale boema. Era una strana alchimia”.

Ma questa volta il ​su​o pianoforte non è solo​: con lui anche nuovi suoni elaborati elettronicamente dalla compositrice stessa, oltre all’uso dell’harmoniun (strumento assai caro a Gurdjieff). Registrazioni perfette, anche grazie alla collaborazione del poli-strumentista Daniele Ercoli (contrabbasso, kaval e eufonio), il quale sarà presente anche sul palco del Monk. “Sacred Honey” si immola alle sonorità esotiche ed esoteriche dei movimenti, degli inni e delle danze sacre di Gurdjieff​ e raggiunge vette di immensità pura.

Annuso odore di successo, anche a giudicare dai 16 mila ascolti su Spotify in tre giorni, ma per la versione in cd (contenente 3 brani extra) bisogna aspettare aprile, esattamente il giorno del concerto. Intanto, per i più colti, i fan e i maniaci del dettaglio: “Sacred Honey” viene dalla parola “Sarmoung” che significa “ape”. I Sarmoung erano una Confraternita babilonese già attiva dai tempi di Hammurabi: per loro la conoscenza è una sostanza materiale che può essere raccolta e conservata come il miele. Per loro le api possedevano insegnamenti antecedenti al Diluvio universale. Secondo varie fonti, nei momenti critici della storia i Sarmoung distribuivano il loro “miele” in tutto il mondo. Lo studioso John Bennett riteneva che il simbolo dell’enneagramma, figura alla base dell’insegnamento di Gurdjieff, provenisse dai Sarmoung.

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