“Frequentavo un centro clinico a Roma, ero paziente di una psicoterapeuta cognitivo-comportamentale e di uno psichiatra piuttosto noto. Nel giro di un anno mi sono accorta che i contenuti dei Whatsapp che spedivo all’uno o all’altra erano condivisi, e quando sollevai la questione, che mi disturbava assai, fui zittita con la scarna spiegazione che in uno studio è la prassi”. Il racconto di P. C. è uno dei tanti, ed è esemplificativo di un modo di fare.

“La condivisione dei dati dei pazienti via Whatsapp o tramite altri social, ma anche con e-mail o altre tecnologie – spiega l’avvocato Gianluigi Ciacci, docente di Informatica Giuridica e di Diritto Civile dell’Informatica presso la Facoltà di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli – è un tipo di azione che riguarda il trattamento delle informazioni sanitarie svolto con uno strumento particolare, che quindi implica l’applicazione delle regole della disciplina sulla protezione dei dati personali, ossia il Regolamento europeo 2016/679, il famoso GDPR. In questi casi è obbligatorio sia informare il proprio paziente del tipo di trattamento che verrà fatto dei suoi dati, sia chiedere un suo consenso a quel tipo di utilizzo. Se questo non viene fatto, si incorre in una sanzione amministrativa che in situazioni estreme può raggiungere i 20 milioni di euro”.

I problemi che stiamo vivendo oggi a causa dell’esplosione delle tecnologie, ma soprattutto della loro diffusione in tutte le tasche delle persone tra i 9/10 anni e gli 80, con la nascita dei social e dei “big data”, insieme alla loro concentrazione nelle mani di pochi operatori nel mondo, sono provocati essenzialmente da due fattori: la mancanza di una cultura del digitale (che permetterebbe, almeno parzialmente, di limitare e comunque gestire parte di questo flusso di informazioni personali) e la non consapevolezza della posta in gioco, cioè la necessità di una tutela dei dati personali, e quindi della dignità dell’individuo a cui si riferiscono.

Il tema è talmente esplosivo che molte categorie professionali si stanno organizzando. I primi sono proprio i medici e, il 22-24 novembre, al Centro della Cultura e dei Congressi di Bologna, in occasione del 42° Congresso Nazionale della Società Italiana dei Trapianti d’Organo e di Tessuti, ci sarà un workshop dal titolo “Whatsapp medicine. La nuova comunicazione medico-paziente: rischi e opportunità”, dove sono stata invitata come discussant nella tavola rotonda “Esperti a confronto”. Si tratta del primo workshop italiano dedicato al tema, ed è importante, dato che al momento, nè in Italia nè in Europa, esistono ricerche, statistiche, pubbicazioni, studi con dati che inquadrino tali problematiche.

“L’abuso dei social – le cui derive sono ormai drammatici fatti di cronaca all’ordine del giorno – prende una piega veramente pericolosa quando declinata sulla salute – continua Ciacci. Quando il dato che si fa viaggiare su Whatsapp o sui social riguarda infatti la salute, in ballo non c’è solo la potenziale lesione della dignità e del diritto alla riservatezza della persona, ma qualcosa di molto più dannoso. Infatti, creandosi, in parallelo al contatto umano medico/paziente, il “distacco digitale” medico/paziente, i rischi sono molto alti. La storia di P. C. è molto esplicativa perchè mette in risalto come la digitalizzazione del setting terapeutico rischia non solo di deteriorare dal punto di vista deontologico il modo in cui viene svolta la professione, ma pone anche molti dubbi sull’effettivo valore in termini di efficacia della terapia. Danni che vanno ben oltre il mancato rispetto dell’obbligo di tutela dei dati personali del paziente”.

Gli aspetti positivi però ci sono, e mi riferisco alla possibilità, grazie alla tecnologia, di prendere in carico l’ansia del paziente, riequilibrando, almeno in parte, lo sbilanciamento nella relazione tra chi cura e chi è curato. Celluari, messaggistica, social e Whatsapp permettono infatti una reperibilità e un “tempo” che di solito non si trova durante un singolo appuntamento diagnostico o terapeutico, vista l’agenda fitta degli specialisti. Se questo, da una parte, diventa un carico assistenziale non retribuito per il medico, dall’altra è un fattore che migliora la relazione e la comunicazione tra medico e paziente, tematica oggi al centro dei più avanzati dibattiti internazionali sull’evoluzione della medicina. In proposito, meno di un mese fa, alla Scuola di Medicina dell’Università di Bari, ha preso il via il corso Ade (Attività didattica Elettiva) su “Comunicazione medico-paziente” affidato al giornalista Franco Giuliano: “Oggi il cuore della salute – mi ha detto il giornalista – è la cosiddetta medicina narrativa, ossia una medicina che sappia raccontarsi al paziente, in una comunicazione non più dall’altro in basso ma inclusiva, partecipativa, “calda”. In questo senso io la penso al contrario: la Whatsapp medicine è il contraltare, perchè mentre sembra avvicinare in realtà divide, in quanto strumento freddo per eccellenza. Whatsapp distrugge l’ascolto e impedisce al medico di fare il suo lavoro: ascoltare”.

Soluzioni non ce ne sono, al momento, ma rimedi sì, e al primo posto troviamo l’approvvigionamento di una cultura digitale. In pochi sanno, i medici men che meno, che Whatsapp è tra i media meno sicuri che ci sono: “Whatsapp è di proprietà di Facebook. Questo significa – continua Ciacci – che anche se è tecnicamente sicuro con la sua crittografia end to end, i dati vanno in server dove a quanto pare qualcun altro, come insegna lo scandalo Cambridge Analitica, vi può accedere. Non a caso il Garante della Privacy ha avviato un’istruttoria su Whatsapp, avviata proprio ai tempi della sua acquisizione da parte di Facebook. Basterebbe prendere qualche accorgimento, ad esempio usare servizi di messaggistica più professionali oppure sistemi di file sharing ad accesso limitato e controllato. Oppure usare le mail separando nell’invio il dato clinico da quello personale, cioè omettendo il nome del paziente. Oppure criptare i dati, proteggendo la loro apertura con password. Ma tutto questo è un meccanismo complesso per chi è un analfabeta digitale”.

Il fatto è che al momento la mancanza di una educazione tecnologica pervasiva e trasversale crea una situazione di totale anarchia molto rischiosa sia giuridicamente, sia socialmente. Per chi volesse approfondire, tra due settimane esce un libro che ho curato dal titolo “Dove non arriva la privacy. Come creare una cultura della riservatezza” (edizioni ETS), con interventi di sociologi, psicoterapeuti, psicologi forensi, giornalisti, giuristi che mettono in luce varie declinazioni di questo problema.

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