La cronaca di questi ultimi giorni ci parla di delitti annunciati, di delitti che forse si sarebbero potuti evitare: sia i genitori della sedicenne Noemi, accoltellata dal fidanzatino, sia quelli di Nicolina, uccisa dall’ex compagno della mamma perché si rifiutava di dargliene l’indirizzo, avevano denunciato le condotte minacciose di questi uomini.  Qualcosa, evidentemente e drammaticamente, non ha funzionato.

Si svolgerà il 7 ottobre a Roma, presso la Casa delle Donne di via della Lungara 19, il convegno internazionale “Fermarsi Prima”, sul tema della prevenzione della violenza sessuale. A organizzarlo è la sede Roma del C.I.P.M., il Centro Italiano per la Promozione della Mediazione, un’associazione del privato sociale che si occupa da più di vent’anni di prevenzione e di trattamento nel campo della violenza interpersonale e che assiste i maschi abusanti. Perchè è lì che si può fare prevenzione, andando alla radice più che all’effetto. Le vittime hanno certamente bisogno di sostegno, ma che senso ha, se non si accompagna l’abusatore in un percorso di presa di coscienza, se non si cerca di evitare le recidive, se non si sviluppa una cultura della consapevolezza?

Basta peraltro uno sguardo ai dati dell’ultima indagine ISTAT sulla violenza alle donne per accorgerci che a molti livelli qualcosa non funziona: non solo, come vorrebbe una certa propaganda, perché non si pone un freno all’immigrazione incontrollata e si lasciano circolare “belve umane” di varie etnie venute qua per violentare la donna bianca, come nel manifesto fascista di Boccasile rispolverato da Forza Nuova. Infatti gli stranieri, all’epoca della prima indagine di questo tipo (2006) come oggi, sono solo una parte del problema. Il 21% delle donne italiane dai 16 ai 70 anni ha subito, nel corso della vita, qualche forma di violenza sessuale, il 10,6% prima dei 16 anni. E – sorpresa – nei 5 anni precedenti il 2014 le donne che hanno subito qualche forma di violenza sessuale sono il 6,4%, contro il 10,5% dei 5 anni precedenti il 2006 (l’”effetto straniero”, come si vede, non è così evidente). Ma ancora più importante è il dato sugli autori delle violenze: perché solo il 13,1% delle violenze sessuali subite nel corso della vita, e il 3,1% di quelle avvenute nel solo 2014 è stato compiuto da sconosciuti, incontrati per caso. I restanti 76,9% e 96,9%, sono stati opera di persone conosciute: partner, ex partner, amici, parenti, conoscenti, colleghi di lavoro.

Come spieghiamo allora il tanto sbandierato 46% di stupri ad opera di stranieri? Con il fatto che il dato si riferisce alle denunce, e non ai reati effettivamente commessi. La dott.ssa Carla Maria Xella, psicoterapeuta ed esperta in terapia del trauma psicologico, ha scritto con Paolo Giulini il libro Buttare la chiave?, sul trattamento degli autori di reati sessuali. “Denunciare di aver subito uno stupro – spiega Xella – è sempre un atto di grande coraggio da parte della vittima – dice Xella – anche nel migliore dei casi, si tratta di rivivere momenti terribili, spesso di subire interrogatori umilianti. Ma proviamo a immaginare due casi diversi: Maria viene trascinata in un angolo deserto, di sera, da uno straniero che non ha mai visto prima e viene violentata e percossa. Anna fa la babysitter a casa di amici di famiglia. Il papà dei bambini la riaccompagna a casa, ferma la macchina in un vicolo e le impone un rapporto orale, minacciandola di dire ai suoi che ha tentato di sedurlo. Secondo voi, quale delle due sporgerà più probabilmente denuncia? Se la prima può sperare nel supporto del suo entourage e forse anche nella solidarietà, magari strumentale, dell’opinione pubblica, chi crederà alla seconda? È la sua parola contro quella dell’abusante, se la sentirà di mandare all’aria la tranquillità di due famiglie?”. L’indagine ISTAT non a caso ci dice che il 36,6% delle donne che nel corso della vita ha subito una violenza sessuale non ne ha mai parlato con nessuno, e che solo il 13,9% ha denunciato l’autore del reato.

Questa la situazione. E quindi, che fare per limitare i danni di questa tragedia? Il lavoro da fare va certamente nel senso del supporto alle vittime, ma qualcosa si può fare anche dal lato di chi questi reati li ha commessi o li potrebbe commettere. Dalla fine del secolo scorso, c’è stato un progressivo sviluppo della ricerca sull’aggressione sessuale, che ha portato alla nascita e alla diffusione, prima in Canada e negli Stati Uniti, successivamente anche in molti Paesi europei, di programmi trattamentali volti a prevenire la recidiva nei soggetti autori di reati sessuali, sia durante il periodo di carcerazione, sia sia all’uscita dal carcere.

Nulla di tutto questo avviene in Italia, dove la situazione è particolarmente schizofrenica: mentre da un lato cresce l’allarme sociale rispetto alle violenze sessuali e agli abusi sui minori, il nostro sistema giudiziario non attua alcun intervento sull’autore di reato sessuale oltre alla carcerazione, che ha una durata tra le più lunghe del mondo (un minimo di 5 anni, fino a 12 e più), in reparti separati destinati agli “infami”. Questo, malgrado l’Italia abbia aderito alla Convenzione di Lanzarote, che prevede interventi trattamentali per autori di reati sessuali, e alla Convenzione di Istanbul, che permette a chi commette reati di violenza domestica l’accesso ai trattamenti a ogni grado di giudizio.

“Solitudine, emarginazione, mancanza di risorse economiche, con il senso di vergogna e di indegnità che ne derivano, sono un potente fattore di rischio per il comportamento criminale, sessuale e non. Rischio aggravato dal fatto che una volta uscito, l’ex detenuto non avrà nessuna forma di monitoraggio, sostegno o trattamento esterno per i suoi problemi rimasti intatti. Carcerazione stigmatizzante e libertà totale alla fine della pena: un mix micidiale per il rischio di recidiva”, dice Xella.

L’altissimo tasso di recidiva degli autori di questi reati in realtà è un mito da sfatare. La ricerca internazionale ci dice che solo il 17%  di chi è stato arrestato per un reato di natura sessuale entro 5 anni commette di nuovo un reato simile. La recidiva media è dunque piuttosto bassa, ma è anche molto differenziata: a fronte di persone che hanno una probabilità di recidivare ancora più bassa, che sfiora l’1%, ce ne sono altre invece che presentano un rischio estremamente alto. In Italia – ci dice ancora Xella – non solo non vengono impiegati gli strumenti che ovunque si utilizzano per valutare la probabilità di recidiva e che hanno una validità ben dimostrata, ma non esistono nemmeno i dati sulla recidiva effettiva di questi reati.

Il C.I.P.M., organizzatore di questo convegno, opera ormai da più di vent’anni nel campo della giustizia riparativa e ha messo in opera un trattamento intensificato per autori di reati sessuali presso la Casa di Reclusione di Milano Bollate che si ripete annualmente da 11 anni. I detenuti vengono seguiti anche all’esterno, in un presidio criminologico finanziato dal Comune di Milano, e per quelli più a rischio vengono strutturati programmi speciali e personalizzati. Il CIPM gestisce due gruppi trattamentali anche all’interno del carcere di Pavia mentre a Roma, grazie ai fondi europei, si è potuto implementare un trattamento simile presso il carcere di Rebibbia. Sono stati trattati complessivamente più di 300 detenuti, e solo 8 di essi hanno commesso nuovamente un reato sessuale: il 2,6%, un risultato di grande rilevanza. Nonostante ciò, il programma carcerario, ormai da due anni, si regge solo su fondi privati, il programma di Rebibbia è stato chiuso per mancanza di fondi, e anche il Presidio Criminologico fondato a Roma non ha alcun finanziamento pubblico.

Eppure la prevenzione della recidiva non solo funziona, ma ha un costo assolutamente sostenibile. Secondo l’ATSA, Association for the Treatment of Sexual Abusers, il costo complessivo annuo di un programma trattamentale, intra ed extramurario, è stimato tra i 6000 e i 7500 dollari per detenuto. Riportato alla situazione italiana e alla retribuzione dei nostri operatori, purtroppo assai più modesta di quella dei colleghi d’oltreoceano, si tratta di circa 3000€, poco più del 6% dei 47.000 € che costa allo Stato ogni anno, tra struttura, personale e altri costi, la carcerazione di un detenuto. Poco, specie se se si considerano i costi sociali di un reato come quello sessuale, che invece sono enormi. Essi si estendono dalla vittima diretta alla sua famiglia, alla famiglia dell’aggressore, fino alle generazioni future: il 68% delle mogli o compagne di uomini che abusano sessualmente dei figli o dei figliastri ha una storia pregressa di abusi sessuali.

E poi c’è il capitolo, enorme, dei reati sessuali commessi da minori: un fenomeno che cresce in modo esponenziale. Anche qui, l’investimento su programmi specifici di trattamento sembra essere quasi nullo. Nella Regione Lombardia, ad esempio, negli anni tra il 2008 e il 2013 solo in due casi su 167 provvedimenti di messa alla prova per minori autori di reati sessuali è stato previsto un lavoro trattamentale centrato sul reato, come avviene invece nelle altre parti del mondo e come è ritenuto essenziale per prevenire la recidiva.

Infine, il convegno tratterà della prevenzione del primo passaggio all’atto. Perché la prevenzione sia efficace è necessario che i soggetti potenzialmente a rischio siano individuati in tempo. Per soggetti a rischio intendiamo sia persone che non hanno ancora commesso alcun reato, ma avvertono impulsi devianti, come attrazione per i bambini, fantasie di violenza ecc.., sia persone che hanno già commesso reati, ma senza contatto fisico con le vittime, per esempio i fruitori di pedopornografia. In molti paesi esistono servizi di questo tipo, sorta di “sportelli” cui si possono rivolgere spontaneamente le persone a rischio: ad esempio l’Associazione DIS NO in Svizzera, la rete Stop It Now in Gran Bretagna e Irlanda il Progetto Dunkelfeld a Berlino.

Perché un servizio di questo genere funzioni, però, è necessario un cambiamento culturale. Non si ripeterà mai abbastanza che la violenza sessuale è un fenomeno trasversale a ogni strato della società, ad ogni etnia e a ogni paese del mondo; che la maggioranza delle violenze sessuali, in una percentuale che sfiora il 90%, è commessa da persone che la vittima conosce, e più spesso ancora che hanno con lei una relazione di fiducia. Identificare il “pedofilo” con il contesto di degrado, con l’estraneo che avvicina il bambino ai giardini, o lo stupratore con lo straniero ubriaco, oltre ad essere un pregiudizio è una credenza controproducente rispetto alla prevenzione. Le vittime avranno sempre timore di non essere credute se il loro aggressore è lontano anni luce da questo stereotipo, ed è invece un padre di famiglia, un professionista, un prete, un compagno di scuola… le cui famiglie sono pronte a schierarsi contro la vittima, la quale non può che essersi inventata tutto. E, d’altra parte, quale persona che avverte dentro di sé un’attrazione sessuale per i bambini  chiederà mai aiuto se teme di essere identificata con un mostro?

“Se vogliamo fare qualcosa che sia efficace – conclude una degli organizzatori, la psicoterapeuta Marta Lepore – dobbiamo prendere atto di una verità molto scomoda:  il 21% dei maschi adulti, e il 3% delle donne, in base ai dati della ricerca, si sente in qualche misura attratta dai bambini. Non c’è del resto da stupirsi, data la quantità di persone che hanno subito a loro volta abusi e hanno quindi un fattore di rischio in più, la quantità di materiale deviante via web cui si è esposti attualmente fin dall’infanzia, le immagini di forza e potere associate alla sessualità, la proposta di un modello femminile con tratti sempre più adolescenziali se non infantili. Non tutte queste persone sono a rischio di agito, e non tutte vogliono agire i loro impulsi. Le pulsioni non sono un reato, lo è invece il metterle in atto”.

Lucia Castellano, Direttore Generale dell’Esecuzione Penale Esterna e Messa alla Prova, parlerà di come utilizzare efficacemente un sistema di probation per prevenire la recidiva; Isabella Mastropasqua, Direttore del Dipartimento di Giustizia Minorile, si occuperà invece di quello che concerne la prevenzione per i minori autori di reati sessuali; gli aspetti clinico-psicologici della strategia preventiva saranno invece trattati da Davide Dèttore, dell’Università di Firenze, che parlerà di dipendenza da pedopornografia, e Anna Rita Verardo, psicoterapeuta dell’Associazione EMDR Italia, che mostrerà come la tecnica EMDR per l’elaborazione del trauma psicologico possa contrastare la ripetizione transgenerazionale dell’abuso. Carla Maria Xella e Paolo Giulini presenteranno il lavoro del C.I.P.M. nell’ambito della prevenzione delle condotte interpersonali violente, mentre Arianna Gianotti e un gruppo di volontari del C.I.P.M. parleranno dei Circoli di Sostegno e Responsabilità per i soggetti più a rischio di recidiva. Gli ospiti stranieri, che parleranno di come viene affrontato il problema del primo passaggio all’atto nei loro rispettivi Paesi, saranno Lisa Ancona, dell’Associazione DIS NO, Jenni Haïkiö, di Save The Children- Finlandia e André McKibben, criminologo canadese fondatore e direttore dei principali progetti trattamentali e di prevenzione del Canada Francese.

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