Venerdi 5 luglio 2019, al Palazzo dell’Informazione di piazza Mastai 9, nel cuore del quartiere Trastevere, Antonio De Rienzo, vice presidente dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA) ha organizzato una conferenza internazionale unica nel suo genere per ridiscutere la relazione tra essere umano e ambiente da punto di vista della psicoanalisi junghiana. Insieme ad AIPA anche l’Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica (ARPA) e il Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA), tutti insieme per accogliere, tra gli altri, il prof. Toshio Kawai, President Elect IAAP, dell’Università di Kyoto, che studia il concetto di psiche estesa, molto influenzato dalle concezioni scintoiste e buddiste.

Perché questo convegno ?

È stata Chiara Tozzi, analista impegnata anche come scrittrice, a suggerire al direttivo dell’AIPA, presieduto da Alessandra De Coro, di dedicare un convegno al rapporto tra psiche e natura. Suggerimento colto volentieri vista l’importanza e l’attualità del tema e che abbiamo realizzato insieme ad ARPA e CIPA, le altre due maggiori associazioni junghiane presenti in Italia. Indipendentemente da nomi e sigle, il tema è importante perché gli esseri umani crescono e strutturano la loro identità in stretta relazione con l’ambiente in cui vivono, nutrendosi di affetti, conoscenze ed esperienze. La visione secondo cui la psiche è separata dal corpo e l’individuo separato dall’ambiente è errata, come confermano i risultati delle ricerche effettuate dal dipartimento dell’università di Kyoto diretto da Toshio Kawai, che sarà nostro ospite.

La psiche è un sistema aperto che trascende i confini dell’individuo. Avviene continuamente e spesso in modo del tutto inconsapevole, che il nostro stato d’animo sia profondamente influenzato dall’ambiente. La nostra identità si forma al crocevia tra le nostre disposizioni innate e l’incontro con l’Altro, che in psicologia analitica include anche l’ambiente non umano. Siamo fatti di dialoghi interni, che si fondano anche su ciò che assorbiamo dall’ambiente circostante. Ne consegue che essere in salute, ovvero diventare se stessi o individuarsi, sia un processo continuo che dura tutta la vita e che, se inteso correttamente, non può condurre ad una chiusura individualistica. L’essere umano completa il suo naturale cammino esistenziale solo quando riconosce la sua appartenenza al mondo, inteso come realtà sociale ed ecologica. L’uomo, per il proprio benessere ha bisogno di sentire di appartenere ad una comunità e ad un pianeta sufficientemente sani. Ne consegue che spendersi in maniera consapevole per un pianeta più sano, oltre ad essere utile al pianeta, può contribuire alla costruzione della salute individuale. Naturalmente con ciò non intendo dire che dovremo presto diventare tutti ecologisti impegnati, ma che la consapevolezza del proprio essere parte di un pianeta vivente non è solo un concetto astratto, ma può legittimamente essere una esperienza affettiva che arricchisce la nostra vita.

In che modo la psicoanalisi junghiana può intervenire nel dibattito internazionale sul rapporto con l’ambiente?

La psicologia analitica può fare la sua parte nel contribuire a fondare una nuova antropologia filosofica ed una nuova etica, cose di cui nella contemporaneità abbiamo molto bisogno. Nello specifico questo contributo può articolarsi su vari livelli. I contributi contemporanei degli psicologi junghiani vanno dalla già citata ricerca universitaria al campo della psicoterapia, dalla psicologia dell’esperienza estetica allo studio dei simboli, dei miti e della spiritualità umana, senza dimenticare i più recenti sviluppi nel campo dell’etnopsichiatria e del rapporto tra psicologia e azione politica. Si tratta di molti ambiti diversi, ma in ognuno di essi la psicologia analitica è portatrice di un approccio legato all’affettività ed alla fenomenologia dell’esperienza umana, che si fonda su una visione del mondo in cui non è possibile separare l’uomo dalle sue radici più antiche che, in ultima istanza lo collegano alla natura. Jung, senza mai voler definire un sistema teorico chiuso, ha per tutta la vita esplorato il rapporto dell’uomo con se stesso e con il cosmo, non a caso è lo psicologo a cui dobbiamo i concetti, ormai entrati nell’uso comune, di inconscio collettivo e sincronicità.

Il suo intervento al convegno parla di una messa in equilibrio tra due parti diverse dentro l’essere umano: crede che il farmaco per riparare il disastro che stiamo compiendo contro il nostro pianeta, ossia contro noi stessi, possa trovarsi dentro di noi?

Posso parlare solo entro i limiti della mia esperienza di psicoanalista innamorato del proprio mestiere. Come le dicevo, questo non è l’unico modo di essere junghiani oggi, ma dal mio studio ho la fortuna di osservare spesso meravigliose manifestazioni di vitalità psichica: chi riesce a liberarsi dei propri sintomi e delle proprie paure tende naturalmente ad allargare la cerchia dei propri interessi, in altre parole ha più energia ed affetto da mettere a disposizione del prossimo e del mondo intero. Negli ultimi anni, inoltre, ho notato con sempre maggiore frequenza il sorgere inaspettato di interessi nei confronti dell’ecologia e del rapporto con l’ambiente, vissuto non solo come responsabilità civile, ma anche come sfondo necessario alla propria pace interiore e come modo di manifestare il proprio bisogno di appartenere a qualcosa di più grande. Non parlo solo di artisti o persone con tendenze religiose, ma di liberi professionisti, studenti, impiegati ed artigiani, che sentono di volersi impegnare in favore dell’ambiente o che iniziano a frequentare contesti in cui la natura è protagonista.

La mia ipotesi è che il rapporto con la natura sia prezioso per l’individuo contemporaneo perché permette di rispondere al suo bisogno di appartenenza, senza però imporsi su di lui con la struttura ed il linguaggio precostituito delle grandi narrazioni politiche e religiose che hanno segnato la storia degli ultimi due secoli, cosa che risulterebbe oggi anacronistica ed oppressiva. Il rapporto con la natura è piuttosto un contenitore che può essere vissuto affettivamente e capace di dare senso all’esperienza del soggetto, che successivamente può decidersi ad agire a seconda delle proprie attitudini e possibilità. Per uscire dalla crisi ecologica serve ricerca scientifica, produzione culturale, attivismo politico, spiritualità e tanto altro ancora. Ognuno può fare la sua parte all’interno di un grande ecosistema culturale.

Può essere un nuovo immaginario, e a partire da questo e da una diversa educazione, nuovi modi di pensare, lo sviluppo di nuovi comportamenti a trasformare la pericolosa situazione reale nella quale ci troviamo?

La sua più che una domanda è un bellissimo auspicio. Mi piacerebbe poter rispondere con certezza che sarà così, ma come le dicevo sono solo un analista junghiano innamorato del proprio mestiere, e posso solo provare a ragionare con lei. In questi anni abbiamo a che fare con gli esiti della globalizzazione, quelli della rivoluzione digitale e con una gravissima crisi ecologica. Si tratta di tre macro fenomeni che possono influenzarsi reciprocamente, ma già ciascuno di essi ha una grande complessità. Se devo rispondere soggettivamente le dico che non sono pessimista e che la via d’uscita può essere trovata anche grazie ad una evoluzione culturale e che tale evoluzione può manifestarsi nei modi da lei descritti, con la collaborazione di molti.

La storia ci insegna che spesso ostacoli che appaiono insormontabili possono fungere da stimolo per la nascita di un nuovo rapporto con le cose e soprattutto per un nuovo modo di vedere i rapporti umani. Stavolta siamo chiamati non solo a rivedere i rapporti umani, ma anche a riconsiderare il diritto di tutte le creature viventi a coesistere. Jung affrontò, con il suo metodo basato sull’amplificazione di elementi presenti nei miti e nella cultura d’occidente ed oriente, il tema dei mutamenti culturali degli anni a venire in uno dei suoi testi più difficili, Aion (1951) in cui sostenne che culturalmente avremmo incontrato il problema dell’unione degli opposti, cosa possibile solo a partire dal riconoscimento del male. A mio parere questo può indicare l’avvento di una società autenticamente pluralista, cosa che personalmente mi auguro.

Continua a leggere su L’Espresso.