«Il femminismo che porto avanti io è quello di Achille Lauro. Che non è legato esclusivamente alla figura della donna ma è allargato anche agli uomini, alla tematica gender e gender fluid, in quanto tutti siamo esseri umani. È un movimento che spinge affinché ognuno possa sentirsi libero di abbracciare se stesso in tutte le sue mille sfaccettature, sviluppando tutti i propri lati, maschili e femminili. Credo nel diritto di poter creare la propria immagine come si preferisce, senza limiti culturali, sociali, storici o di altra matrice. È un femminismo che abbraccia tutti i generi, anche quelli indefiniti. Achille Lauro è femminista. È avanguardia. Ovviamente non corrisponde alla totalità della popolazione ma è una fortissima spinta in avanti. E le spinte trainano. E prima o poi arrivano tutti a capire».

Standing ovation: può esserci un personaggio più ReWriters di così? Se ne sono accorti anche Massimo Bray e Nicola Lagioia, direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino, quando l’hanno ospitata in Treccani riconoscendo ai suoi testi ironici, alla sua capacità di rompere i luoghi comuni, la forza di rappresentare una fra gli artisti più importanti di questo decennio. Guardatevi questo video per farvi un’idea: clicca.

M¥ss Keta, con i suoi occhiali scuri e il suo «bavaglino» chic di lamè, mascherine pre-Covid di velluto o di glitter, è senza briglia, senza canoni, fuori da qualsiasi schema, viaggia dai sotterranei di sesso, droga e trasgressione di Milano, in rappresentanza del collettivo creativo Motel Forlanini, nato come gesto di ribellione verso questo momento storico in cui importa più l’immagine che la sostanza, in cui tutti vogliono far vedere la faccia, magari nei selfie pubblicati sui social, ma hanno paura di esprimersi con autenticità, a Sanremo, alla Camera di Commercio italiana in Giappone al festival Italia Amore Mio!

Citazione vivente (Madonna, Jo Squillo, Sabrina Salerno, Lady Gaga, Raffa Carrà e, ça va sans dire, Bowie), è una performer a 360 gradi, femmina Alfa della scena musicale italiana contemporanea: surfa tra rap, techno, punk, hip hop, afrobeat e elettroclash, collabora con Mahmood, Gemitaiz, Gabry Ponte, Elodie, Gué Pequeno e Il Pagantest, è una devota a Miss Kittin, con cui l’assonanza del nome d’arte non è casuale. Il suo album Paprika, in cui cavalca una mega mortadella, è un richiamo inconfondibile all’estetica e alle atmosfere di Tinto Brass o Bigas Luna, un po’ trash, un po’ kitsch e un po’ camp. Ma anche un po’ Manga.

Lei lo dice: «Chiunque può essere M¥ss Keta, anche se il progetto è legato a una voce». Già, per questo l’anonimato, occhiali scuri e mascherina, un po’ come lo psicoanalista che si siede alle spalle, in modo che gli si possa attribuire tutto, proiezioni di sè, sogni, fantasie, desideri, bisogni. E così, lei, eye-liner colato, sguaiata, grottesca, caricaturale, diventa simbolo del post femminismo, capace di impugnare la sua sessualità come un’arma, superando le questioni vetero della parità e persino della differenza per andare oltre: zona fluid. Uno sparo, più che una cantante, verso un pubblico che, soprattutto tra i giovanissimi, sembra gradire la sua irruenza che rompe e risignifica.

Sembra insomma che il futuro della musica sia queer e M¥ss Keta, come Achille Lauro, è decisamente artista “accelerazionista”, ossia tra coloro la cui estetica taglia definitivamente con una tradizione musicale e di costume legata ancora agli stereotipi socioculturali tradizionalisti per affermare una liberazione completa dagli standard, anche da quelli della musica elettronica che, ancora oggi, propongono una visione “machista” coi dj che esibiscono nomi muscolosi e celoduristi.

Siamo in pura area xenofemminista: “Lo xenofemminismo deve insistere su una concezione necessariamente collettiva dell’agentività (punto principale dell’intera teoria social-cognitiva, può essere definito come la capacità di agire attivamente e trasformativamente nel contesto in cui si è inseriti – ndr) politica, e dunque su una concezione apertamente e intrinsecamente coalizionale della politica emancipatoria”, scrive Helen Hester, tra le fondatrici del collettivo femminista Laboria Cuboniks, in Xenofemminismo.

Già nel 2018 Hester (prof di teoria dei media e della comunicazione alla University of West London) parlava dello xenofemminismo, ossia del femminismo declinato nella contemporaneità e nel suo futuribile, un mondo sempre più tecnologico e globalizzato: “Una forma di femminismo tecnomaterialista, antinaturalista e abolizionista del genere”. Ed ecco anche qui la contestazione dei limiti biologici, a partire dal binarismo di genere. Lo xenofemminismo, infatti, è intersezionale: critica il femminismo storico che si è occupato del corpo della donna, immaginato solamente bianco, cisgender e non-disabile, e lo trasporta nella sua ibridazione queer come via di liberazione definitiva per ogni donna e per ogni uomo.

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