La Dea Fortuna è un film italiano. Tipicamente italiano. Pieno di stereotipi che ci appartengono, di tipizzazioni, di cliché, ma mai macchiettistico. Anzi, proprio per il voluto conformismo che racconta è drasticamente pop, popular. E in questo senso la narrazione è perfetta anche perchè raccontata da un regista che è nazionalizzato italiano ma è turco, quindi pienamente capace di padroneggiare la famosa “giusta distanza”.

Ferzan è infatti nato nel 1959 a Instambul da famiglia colta, imparentata con ben due pascià. Ma l’Università l’ha fatta a Roma, Storia del Cinema a La Sapienza e poi corsi di regia all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. Da lì l’aiuto regia di Troisi, Tognazzi, Nuti. Insomma, più italianizzato di così, in campo cinematografico, è dura. Ed ecco perchè quel suo sguardo esatto su noi italiani, quel guardare all’animo umano universale attraverso la lente del cinema capitolino, così inconfondibile, così venerato in tutto il mondo.

Stereotipi, dicevamo. La capacità di rappresentare l’intera umanità nonostante i numerosi fattori dello script che sembrano circoscrivere il respiro universale di questo film (l’italianità, appunto, e un certo cinema, ma anche l’ambientazione nella comunità di minoranze LGBT+) è la vera forza di La Dea Fortuna. Si parla di paura e amore, di generosità e di grettezze, di slanci e di vigliaccherie, di coraggio, di dolore. Ozpetek maneggia la materia più scottante in assoluto, il senso della vita, e lo fa attraverso una storia qualunque, talmente qualunque che già dopo pochi minuti di film ci si dimentica che la coppia protagonista è “anomala”.

Personaggi perfetti nel cangiante chiaroscuro delle loro grandiose imperfezioni, e per questo così insopportabilmente umani, soprattutto in quel lasciarci a bocca asciutta ogni volta che desideriamo una svolta epica o eroica. Un film mai ruffiano eppure facile, facilissimo, proprio per le infinite possibilità di identificarsi sempre, in ogni scena, in ogni attore, come se quel grumo di variopinti personaggi, ognuno abbondantemente connotato, approfondito e tridimensionalizzato, stesse in realtà raccontando di una vita sola. Come se attraverso i gangli e gli snodi nelle vite di ogni soggetto in scena si stesse in fondo parlando sempre di un’unica persona: noi stessi.

Anche lo storytelling è sofisticato: tutto è detto anche se non mostrato. Davvero un grande seduttore questo Ferzan. Allo spettatore non mancherà nemmeno un dettaglio, eppure la sceneggiatura non cade mai nella trappola della didascalia. Anzi, al contrario, potenzia il suo tone of voice proprio levando audio, sottraendo scene, tagliando nel montaggio, facendo slittare un momento sul successivo e poi aiutandoci a recuperare da soli la parte di trama non narrata.

Insomma: la coppia gay maschile che vive in un condominio freak, festaiola, promiscua, poliamorosa, poligamica riesce, pensa un po’, a rappresentare l’intera umanità quando ama, riesce a raccontare tanti tipi di amore, quelli che forse senza nemmeno che lo sapessimo tutti noi abbiamo vissuto o viviamo, riesce a ricordarci che in ogni sceggia di dolore si nasconde la forza propulsiva della vita, della rinascita.

Un film da vedere.

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