Mi affascina moltissimo il dibattito pubblico sul DDL Zan, soprattutto quando leggo la questione che lievita intorno al concetto di libertà di opinione, usato come ostacolo a questa legge. Il fascino è prodotto dallo stupore di fronte all’indifferenza per la sofferenza umana. Come se fosse un dettaglio, al confronto con l’impellenza di affermare il proprio punto di vista. Come se non fossimo animali dotati biologicamente del sentimento di empatia.

Mi spiego meglio. Coloro i quali manifestano questa urgenza di esprimere le proprie idee-opinioni-punti di vista sulle persone omosessuali, transessuali, lesbiche, bisex, intersessuali, asessuali, queer, etc, non si curano minimamente dell’effetto sull’altro, nemmeno quando sarebbe facilmente prevedibile, trattandosi spesso di insulti. Esprimere opinioni e giudizi sembra l’unico bisogno e obiettivo, come se si fosse in un vuoto pneumatico, isolati dal resto della comunità.

Ma com’è possibile? Come è possibile che mi risulti indifferente se le mie opinioni fanno soffrire o meno qualcun altro? Dal mio punto di vista, forse utopico, onirico o naif, in una società sana, in un gruppo sociale che convive armoniosamente, l’indice di sofferenza di qualcuno dovrebbe essere un problema pubblico, quindi anche mio. Nello stesso modo, sulle scelte riguardanti il libero arbitro, quella sofferenza, se causata da una mia azione, dovrebbe guidarmi nel cambiare non idea ma certamente comportamento. Come si può essere compiutamente felici, infatti, se non lo sono tutti i miei pari? Ecco perché sono affascinata.

Marco, Paola, Raffaele scrivono sui social commenti insensati quando si ribellano a tutto ciò che potrebbe imporre loro di modulare le esternazioni riguardo alle persone LGBTQ+. Insensati perché, dicevo, seminare sofferenza è un’azione che fisiologicamente ci si ritorce contro: anche solo parlando in termini di economia egotica o narcisistica, non traiamo alcun vantaggio nell’essere portatori di sofferenza, perché un gruppo sociale che, in una sua parte, è frustrato, ferito, arrabbiato, non è capace di produrre valore, non è creativo, non è collaborativo né cooperante, non riesce a trovare soluzioni ai problemi. E quel gruppo sociale è lo stesso a cui anche noi apparteniamo.

Detto in altre parole, pur conservando, proteggendo, coltivando, condividendo con i miei pari le mie idee, mi conviene non esternarle quando possono produrre sofferenza. Vuoi dire frocio di merda? Dillo, ma in casa tua, o con amici che la pensano come te. Pensi che le lesbiche facciano schifo? Pensalo, anche dalla mattina alla sera, pensalo in assoluta libertà, ma non lo dire a una lesbica, perché la ferisci. E’ così strano che ci sia bisogno di una legge: mi sembra cosi evidente la convenienza del rispetto, della buona educazione, dell’amicizia tra persone diverse. Eppure non è così.

Provo allora a spiegarlo in un altro modo, meno naif e più accademico. A spiegare perché conviene a tutti trovarsi in una società in cui ognuno si senta felice e realizzato. L’“approccio oggettivo” (capabilities approach) come indicatore di benessere, tipico degli anni Ottanta, è stato superato da quello soggettivo che si basa sul concetto di well-being (“economia della felicità”), ossia l’emozione positiva o negativa che gli individui associano alla propria esistenza. Molto noto il paradosso di Easterlin in cui, con incrementi del reddito, il livello di soddisfazione individuale appare stazionario o persino decrescente, sebbene le persone ricche si dichiarino mediamente più soddisfatte di quelle povere (“i soldi non fanno la felicità”: vi dice nulla?). Insomma, il benessere sociale non si misura più solamente con il PIL, e la Pandemia ce lo ha fatto percepire sulla carne. A tutt*.

La nascita all’Ocse del nuovo centro Wise (Well being, Inlcusion, Sustainability and Equal opportunity), diretto da una donna italiana, Romina Boarini, è stato un bello step in questo senso, perché elabora nuove misure del benessere collettivo che appunto comprendono, e non come dettaglio, la realizzazione personale. In realtà, il primo ad illuminarci fu il famoso discorso di Robert Kennedy del 1968: “Il Pil misura tutto fuorché quello che rende la vita meritevole di essere vissuta”, ma è stata l’Osce, all’inizio del nuovo millennio, a promuovere le ricerche sul misurare “ciò che conta davvero” (Measuring what matters). L’Italia una volta tanto non è l’ultimo fanalino di coda, col suo Bes (il sistema di indicatori del Benessere equo e sostenibile), mentre l’Ocse ha creato il suo Better life index. Il più importante è a mio avviso però la nascita degli indicatori SDGs, un meccanismo mondiale per valutare il raggiungimento di 169 obiettivi in rapporto ai 17 Sustainable development Goals dell’Agenda 2030 dell’Onu. Intanto, dal 2013 si celebra l’International day of happiness, giornata in cui viene pubblicato il World happiness report, con classifiche per Paesi. Quindi, su, facciamo questa legge, visto che non sappiamo volerci bene.

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